Un’estate al mare…. Ci può essere un titolo più banale di questo? Se non altro, sono banali anche le foto perciò siamo a posto. Stare a prendere il sole sdraiato nel lettino e tra un bagno e l’altro scattare qualche foto senza allontanarsi più di una decina di metri dall’ombrellone immagino non possa nemmeno essere considerato fotografare.
E comunque, ecco una piccola sequenza di 11 immagini, in un percorso virtuale che conduce in maniera più o meno intenzionale dai colori accesi delle prime foto fino ai toni più malinconici delle ultime, nel tentativo di raccontare una minima parte della mia estate 2016.
Tutte le immagini (tranne due realizzate con la GoPro Hero 4…ed è facile intuire quali) sono state scattate con la Fuji XT-1 e l’obiettivo 16-55/f2.8-4, spesso con il filtro polarizzatore. Color profile Velvia, qualche crop in alcune foto, ed editing al volo in Lightroom con la semplice applicazione di due preset: Direct Positive, nelle prime foto, e Hawaii Five-O nelle ultime. Perlomeno, mi pare di ricordare così. Non che abbia una qualche importanza, del resto, ma ci sono alcune persone malate di mente come me per le quali questi dettagli insignificanti possono suscitare un qualche inspiegabile interesse. Come se la fotografia fosse questo inutile disquisire di tecnica e non qualcosa di molto più profondo. Ma per adesso accontentiamoci, visto che di profondo in questa serie c’è soltanto in mare, e neanche più di tanto.
Furore di John Steinbeck (“The grapes of wrath” nell’edizione originale) é il capolavoro della narrativa realista americana, pubblicato per la prima volta nel 1939 e vincitore l’anno successivo del Premio Pulitzer. L’ho finito di leggere qualche giorno fa: che gran libro!
Con una prosa asciutta ed efficace, che raggiunge il suo apice in alcuni capitoli più descrittivi di grande potenza suggestiva, Furore descrive le tribolazioni della famiglia Joad, costretta ad abbandonare l’Oklahoma per andare a cercar fortuna in California. Un libro fondamentale, pieno di fatalismo non rassegnato e grande dignità. E una miseria nera, che tutti dovrebbero conoscere per non dimenticare.
(La copertina dell’edizione originale di “The Grapes of wrath” della Viking Press. Photo: Carter Burden Collection of American Literature, Morgan Library & Museum)
“E manco Ma’ è un tipo tenero. Una volta ha pigliato a colpi di pollo un piazzista che faceva questioni. Ma’ aveva in una mano il pollo vivo e nell’altra aveva l’accetta per tagliargli la testa. Voleva colpire il piazzista con l’accetta ma si è sbagliata di mano e l’ha pigliato a colpi di pollo. Alla fine il pollo non siamo manco riusciti a mangiarlo. A Ma’ gli erano rimaste in mano solo le zampe. Nonno ha riso così tanto che s’è fatto uscire l’osso del fianco.” Furore di John Steinbeck
Negli anni trenta del secolo scorso i progressi nelle tecniche agricole, con la comparsa su larga scala di trattori capaci di svolgere il lavoro di decine di uomini, e le devastazioni del Dust bowl, le tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali, causarono la migrazione di oltre mezzo milione di americani. Un vero e proprio esodo di massa, mosso da disperazione e istinto di sopravvivenza, che diede origine alla più grande migrazione interna degli Stati Uniti.
“Dai, Tommy. Vedrai che ti viene facile raccontarti che li stai fregando, sdraiato lì in mezzo al cotone. E l’importante è quello che uno riesce a raccontarsi.” Furore di John Steinbeck
Gli Oakies, come dispregiativamente vennero chiamati, arrivarono in California affamati di terra e di lavoro, e non furono certo accolti a braccia aperte. Terra non ce n’è. Lavoro neppure. Tornate da dove siete venuti.
Con una moltitudine di disperati disposti a fare qualsiasi cosa pur di non morire di fame, furono in tanti ad approfittare della situazione: le paghe crollarono, e ci si spaccava la schiena per sopravvivere fino al giorno dopo, nella speranza di tempi migliori. Tra i messaggi di Furore, la denuncia sociale dello sfruttamento dei lavoratori, da parte dei grandi proprietari terrieri e delle banche, è di fatto uno dei più importanti. Steinbeck, che risiedeva in California all’epoca dei fatti, fu un testimone diretto e sconcertato di questi avvenimenti, e per la creazione del romanzo prese spunto da una serie di articoli giornalistici che egli stesso pubblicò sul “San Francisco News”.
Ho letto il libro, in formato ebook, nella nuova edizione Bompiani del 2013, con la traduzione di Sergio Claudio Perroni, basata sul testo integrale e dunque non rimaneggiata dalla censura americana e italiana dell’epoca. Questo di seguito è il passaggio certamente più radicale del libro, nel quale Tom Joad, uno dei principali protagonisti di questo racconto corale, dice alla madre:
“… io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. […] Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano… e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito… be’, io sarò lì.” Furore di John Steinbeck
Il personaggio di Tom Joad diventò di primaria importanza nella cultura popolare americana. Fu interpretato da Henry Fonda nel celebre film di John Ford del 1940, vincitore di numerosi Oscar l’anno successivo (nelle due immagini sotto, la locandina di “The grapes of wrath” e una scena del film).
Woody Guthrie, uno dei più importanti cantanti folk americani, gli dedicò due canzoni all’interno del disco “Dust Bowl Ballads”, anch’esso del 1940, uno dei primi concept album della storia della musica popolare. Lo spirito di Tom Joad è stato poi magistralmente invocato nell’album “The ghost of Tom Joad” di Bruce Springsteen, del 1995, e nella splendida canzone omonima.
Mai avevo sentite le cicale frinire così forte come nel Santuario nuragico di Santa Cristina: il loro suono sovrasta ogni altra sensazione, ed è la prima cosa che mi colpisce sotto il sole cocente di questo pomeriggio di luglio. Erano anni che mi ripromettevo di visitare questo sito archeologico, in cui ero stato durante una gita scolastica ma della quale serbo pochi ricordi.
Ad un passo dalla S.S. 131, la possibilità di visitarlo mi è sempre sembrata talmente semplice che ogni volta rimandavo a quella successiva. Stanchezza, fretta di tornare a casa, abbigliamento non adatto…. C’era sempre una scusa pronta. Questa volta però mi sono organizzato, e dopo una riunione di lavoro a Gavoi mi sono fermato in uno spiazzo lungo la statale: via l’abito, mi infilo una maglietta, un paio di pantaloncini corti e le vecchie scarpe da running.
Il sudore mi imperla la nuca, l’afa è soffocante. Le cicale continuano il loro concerto, ammutolendosi un istante soltanto quanto mi avvicino ai rami degli ulivastri per cercare di osservarle, e sembrano l’unica forma di vita in questi pezzo di Sardegna primordiale.
Attraversato uno spiazzo nel villaggio cristiano, contornato dai muristenes utilizzati come alloggio per i pellegrini che si recano alla chiesa campestre di Santa Cristina di Paulilatino (OR), costruita dai monaci camaldolesi in periodo medievale, arrivo finalmente ai resti del villaggio nuragico. L’ombra degli ulivastri mi da un po’ di sollievo dall’afa, con la Fuji XT-1 cerco di scattare qualche foto, ma non è semplice gestire le luci e le ombre troppo forti delle prime ore del pomeriggio. Indeciso tra bianco e nero e colore, alla fine opto per entrambi: dal punto di vista stilistico non ha molto senso e vengono fuori immagini banali e senza pretesa alcuna, come era scontato che fosse. E’ difficile entrare in quello stato di predisposizione mentale che favorisce la creazione artistica in fotografia, specialmente non essendoci più abituato. La visione è tutta da trovare, e non è questo pomeriggio il giorno giusto per farlo.
Lascio per ultima la parte più interessante della visita al santuario nuragico di Santa Cristina, e percorro un campo assolato, con le cicale che continuano senza sosta a offrirmi una armoniosa musica di sottofondo. Sottofondo mica tanto, visto il frastuono che fanno. Arrivo al pozzo sacro, le geometrie promettono bene già dall’ingresso ma non è ancora nulla rispetto alla discesa dei ripidi scalini che conducono all’acqua nel fondo della struttura.
Fantascienza.
Continuo a ripetermi questa parola mentre osservo stupefatto la perfezione della squadratura delle pietre in basalto e gli incastri sovrapposti. Tanta è la differenza di raffinatezza costruttiva del pozzo sacro rispetto ai nuraghi che non sembrano nemmeno opera delle stessa epoca. Che meraviglia!
“…principesco è il pozzo di Santa Cristina, che rappresenta il culmine dell’architettura dei templi delle acque. È così equilibrato nelle proporzioni, sofisticato nei tersi e precisi paramenti dell’interno, studiato nella composizione geometrica delle membrature, così razionale in una parola da non capacitarsi, a prima vista, che sia opera vicina all’anno 1000 a.C. e che l’abbia espressa l’arte nuragica, prima che si affermassero nell’isola prestigiose civiltà storiche”
Giovanni Lilliu – “Nuovi templi a pozzo della Sardegna nuragica”, in Studi Sardi (1955-1957)
Una perla nascosta nella discografia di Dylan, capace di emozionarmi ogni volta che la sento. “Every grain of sand“, nell’incisione contenuta nell’album “The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991“, ha una freschezza e una suggestione che si ritrovano di rado da altre parti.
Nell’autunno del 1981 Dylan chiamò Jennifer Warnes per farle sentire una nuova canzone che aveva scritto e registrarla insieme. La Warnes, cantante cristiana che aveva piazzato alcuni successi da hit parade negli anni precedenti (e che qualche anno dopo fece incetta di Oscar, Grammy e Golden globe per il brano “The time of my life” del film “Dirty dancing – balli proibiti”), si presentò ai Rundown studios con tutta probabilità con una certa apprensione mista a perplessità.
Soltanto tre anni prima infatti, Bob Dylan, nato Robert Allen Zimmerman in una famiglia ebraica di Duluth in Minnesota, fece scalpore per la sua conversione a “cristiano rinato”.
I due album usciti in quegli anni, “Slow train coming” e “Saved”, denotavano una visione fondamentalista e intransigente della realtà che spiazzò la critica e il pubblico. La scelta apparve ancora più inspiegabile in un artista che, a partire dalla metà degli anni ’60, era diventato la leggenda vivente del rock per la sua poetica spesso anticonformista e la sua rivolta nei confronti di tutto l’establishment che lo avrebbe voluto, per comodità, etichettare di volta in volta come cantante di protesta, simbolo della controcultura giovanile, profeta del folk e chissà cos’altro.
Dylan fece sentire a Jennifer Warnes una sola volta il brano al pianoforte, dopodiché le chiese di registrarlo, senza darle il tempo di studiarselo con calma o di provarlo in alcun modo. Dylan non era nuovo a questo modo di lavorare, che lasciava spesso sconcertati i musicisti che lo dovevano accompagnare, ma ancora una volta fece il capolavoro.
Ne venne fuori un’incisione fenomenale, durante la quale, ad aggiungere improvvisazione all’improvvisazione, i cani di Dylan iniziano ad abbaiare amalgamandosi in maniera perfetta con la melodia e aggiungendo un ulteriore livello di profondità a questo brano, che altro non è se non un canto di gratitudine per tutta la meraviglia della vita, la potenza assoluta della creazione e il mistero che si cela dietro anche le più piccole cose, come appunto i granelli di sabbia del titolo.
In the time of my confession, in the hour of my deepest need
When the pool of tears beneath my feet flood every newborn seed
There’s a dyin’ voice within me reaching out somewhere
Toiling in the danger and in the morals of despair
Don’t have the inclination to look back on any mistake
Like Cain, I now behold this chain of events that I must break
In the fury of the moment I can see the Master’s hand
In every leaf that trembles, in every grain of sand
Oh, the flowers of indulgence and the weeds of yesteryear
Like criminals, they have choked the breath of conscience and good cheer
The sun beat down upon the steps of time to light the way
To ease the pain of idleness and the memory of decay
I gaze into the doorway of temptation’s angry flame
And every time I pass that way I always hear my name
Then onward in my journey I come to understand
That every hair is numbered like every grain of sand
I have gone from rags to riches in the sorrow of the night
In the violence of a summer’s dream, in the chill of a wintry light
In the bitter dance of loneliness fading into space
In the broken mirror of innocence on each forgotten face
I hear the ancient footsteps like the motion of the sea
Sometimes I turn, there’s someone there, other times it’s only me
I am hanging in the balance of the reality of man
Like every sparrow falling, like every grain of sand
Nel momento della mia confessione, nel momento del mio più profondo bisogno
Quando la pozza di lacrime sotto i miei piedi si allaga con ogni neonato seme
C’è una voce in agonia dentro di me che cerca qualcosa da qualche parte,
lavorando duramente nel pericolo e nella morale della disperazione.
Non ho l’inclinazione a guardare indietro ad ogni sbaglio,
come Caino, adesso scorgo questa catena di eventi che devo spezzare.
Nella furia del momento, riesco a vedere la mano del Signore
In ogni foglia che trema, in ogni granello di sabbia.
Oh, i fiori dell’indulgenza e l’erbaccia degli anni passati,
come criminali, hanno soffocato il respiro della coscienza e del buon conforto.
Il sole batte sui passi del tempo per illuminare la strada
Per affievolire il dolore dell’ozio e la memoria del declino.
Fisso attraverso l’entrata di affamate fiamme tentatrici
Ed ogni volta che passo da questa parte sento sempre il mio nome.
Poi avanti nel mio viaggio riesco a capire
Che ogni capello è numerato così come ogni granello di sabbia.
Sono passato dagli stracci alla ricchezza nel dolore della notte
Nella violenza di un sogno estivo, nel brivido di una luce invernale,
nell’amara danza della solitudine che svanisce nello spazio,
nello specchio rotto dell’innocenza su ogni viso dimenticato.
Sento gli antichi passi come il movimento del mare
A volte mi giro, e c’è qualcuno lì, a volte solo io.
Sono sospeso in equilibrio sulla realtà dell’uomo
Come ogni passero che cade, come ogni granello di sabbia.
Bella domanda…. Il blog Germinazioni nasce dalla voglia di condividere diverse cose, nessuna delle quali ha particolare senso se non per me. Non ha nessun motivo di esistere e probabilmente avrà vita breve, essendo ad alto rischio di estinzione per selezione naturale nello spazio infinito del web. Pieno di cose inutili e autoreferenziali come questa, che nessuno leggerà mai.
Voglio però fare un tentativo, ed è quello di mettere insieme, nel tempo, una serie di appunti, di impressioni e di frammenti della mia vita che nel complesso possano servire a rivelare, anche a me stesso, una parte del mosaico. E’ per questo motivo che ho chiamato “…un diario di viaggio” la homepage di Germinazioni.
Nutro la segreta speranza che un giorno le persone a me più care, ma anche chiunque altro, abbiano voglia di leggere qualcuno di questi articoli, e da essi prendere una qualche ispirazione: se qualcuno tra i semi che in questo sito verranno gettati avrà la fortuna di crescere e di germinare, sarà per me la gratificazione più grande.