Moonshiner, un traditional folk riarrangiato da Bob Dylan

Ho visto qualche mese fa su Sky “I’m not there“, il biopic di Todd Haynes sulla vita di Bob Dylan, uscito nelle sale nel 2007. Film molto visionario e dalla costruzione particolare, che consiglio soltanto a chi conosce (e bene) la biografia dell’artista. Diversamente sarebbe impossibile cogliere i numerosi riferimenti e citazioni e il film sarebbe pressoché incomprensibile.

I'm not there soundtrack

Ma ancora più interessante del film è stata per me la colonna sonora di “I’m not there”. Raccoglie canzoni suonate da Dylan e altre reinterpretate da altri artisti: un brano che mi ha particolarmente colpito, anche se non al primo ascolto, è Moonshiner. Inciso da Dylan nel 1963, è stato pubblicato per la prima volta nel 1991 in “The Bootleg Series, Vols. 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991 “. Nella colonna sonora del film il brano è ben interpretato da Bob Forrest, leader della band di indie rock dei Thelonious Monster.

This is one of those tunes that can really mess with my emotions. If I’m driving late at night and this comes on, it might make me feel sad. If I hear it and I’m at home in a good mood, it might just make me feel inspired to pick up the guitar and harmonica and do my best Bobby D impression.

“In honor of Bob Dylan’s 75th birthday: 5 deep cuts all fans need to hear”

Brano folk dalle origini ancora dibattute, secondo alcuni  Moonshiner è un brano irlandese poi diffusosi in America, secondo altri è un brano tradizionale americano che poi ha avuto fortuna in Irlanda. Le prime tracce risalgono agli anni’30, nelle registrazioni della cantante irlandese Delia Murphy, e si può presumere che sia questa la versione più attinente a quella originale, risalente a chissà quanti anni prima. E di cui non sono restate tracce. Inutile dire che si tratta di una melodia completamente diversa da quella che poi verrà incisa da Dylan diverse decine di anni più tardi.

Clicca qui per ascoltare la versione di Moonshiner di Delia Murphy (traccia 14), dall’album “If I were a blackbird”

deila-murphy

Bob Dylan riarrangiò il brano in maniera magistrale, e anche la sua esecuzione è considerata una delle migliori dal punto di vista vocale, come il suo più famoso critico, Greil Marcus, sostiene nel libro “Bob Dylan scritti: 1968-2010“:

“Prendo tutte le note” disse Dylan nel 1965, in risposta all’intervistatore che aveva nominato Caruso, “e se voglio riesco a trattenere il fiato tre volte tanto”.  Questa ballata degli Appalachi – cinque minuti di sospensione, singole note dalla gola del cantante e l’armonica trattenuta nell’aria come se lasciar scendere le note significasse dispensare morte – deve essere stata quello che aveva in mente.

I’ve been a moonshiner for seventeen long years
I’ve spent all my money on whiskey an’ beer
I go to some hollow and set up my still
If whiskey don’t kill me then i don’t know what will.

I’d go to some bar room and drink with my friends
Where the women can’t follow an’ see what i’ve spent
God bless those pretty women, i wish they was mine
Their breath is as sweet as the dew on the vine.

Let me eat when i’m hungry, moonshine when i’m dry
Greenbacks when i’m hard up, religion when i die
The whole world is a bottle an’ life’s but a dram
When a bottle gets empty, god it ain’t worth a damn.

I’ve been a moonshiner for seventeen long years
I spent all my money on whiskey an’ beer
I’d go to some hollow and set up my still
And if whiskey don’t kill me then i don’t know what will.

Copyright © 1991 by Special Rider Music

Sono stato un distillatore clandestino per diciasette lunghi anni
Ho speso tutto il mio denaro in whisky e birra
Vado in qualche fossato e preparo il mio alambicco
E se il whisky non mi uccide allora non so cosa lo farà

Andrò in qulache bar a bere con i miei amici
Dove le donne non possono seguirmi per vedere quel che spendo
Do le benedica quelle belle donne, vorrei fossero mie
Il loro respiro è così dolce come la rugiada sulle piante

Fatemi mangiare quando ho fame, fatemi bere whisky clandestino quando ho sete
verdoni quando sono senza una lira, religione quando morirò
Il mondo intero è una bottiglia e la vita nient’altro che un bicchierino di whisky
Quando una bottiglia è vuota state certi che non vale più un fico secco

Sono stato un distillatore clandestino per diciasette lunghi anni
Ho speso tutto il mio denaro in whisky e birra
Vado in qualche fossato e preparo il mio alambicco
E se il whisky non mi uccide allora non so cosa lo farà.

Traduzione di Michele Murino – Maggiesfarm

La remota Isola Macquarie dell’Oceano Pacifico

Ho deciso di scrivere questo blog per parlare delle cose più varie, ma che presentano curiosi collegamenti reciproci e rimandi, e oggi è il turno dell’Isola Macquarie. E da questo punto di vista, credo sia quasi impossibile parlare di un argomento più disparato che di questa remota isola dell’Oceano Pacifico, dispersa tra Nuova Zelanda e Antartide.

Mappa dell'Isola Maquarie

I pinguini dell’Isola Macquarie

Ho sentito nominare per la prima volta l’isola Macquarie in un libro di pinguini che ho sfogliato tante volte con mio figlio, quando ancora aveva un paio d’anni. I pinguini lo hanno sempre affascinato, e già da allora, peculiarità che ha conservato anche adesso che ha qualche anno in più, amava conoscere il nome esatto di tutti gli animali. Oltre ai più conosciuti Pinguino Imperatore e Pinguino reale, specie più esotiche erano rappresentate dal Pinguino delle Isole Galapagos o dal Pinguino di Adelia.

C’era però in questo libro una foto del pinguino che ci appariva il più misterioso ed esotico di tutti: il Pinguino dell’Isola Macquarie. Ed eccoli qua, con il loro ciuffo ribelle da rocker anni’80:

Pinguino dell'Isola Macquarie
(photo: Greg Stone, da http://www.antarctica.gov.au)

Cercando sul web qualche immagine dell’esotico pennuto, al momento della scrittura di questo articolo, ho scoperto che in realtà il Pinguino dell’Isola Macquarie non esiste. O per lo meno, non c’è una specie che si chiami in questo modo. Si tratta invece di pinguini reali dal ciuffo dorato, che nidificano esclusivamente su quest’isola.

Sia come sia, per me e mio figlio esisterà sempre il Pinguino dell’Isola Macquarie, come diceva la didascalia della foto nel libro che abbiamo sfogliato tante volte. E pazienza se nelle classificazioni dei naturalisti esso non sia contemplato.

Un po’ di storia…

Detto questo, a suo tempo non avevo idea di dove si trovasse l’Isola Macquarie, ma questo nome mi è rimasto impresso. Mi ha perciò incuriosito una notizia letta oggi nel giornale, nella quale si riportava che il governo australiano (al quale l’isola appartiene) ha deciso di smantellare a partire dal 2017 la stazione di ricerca scientifica dell’Australian Antarctic Division, in funzione dal 1948.

Lunga poco più di trenta km, fu scoperta casualmente nel 1810 dal navigatore australiano Frederick Hasselborough, in cerca di nuovi territori dove cacciare foche.

Il naufragio della "Gratitude" sull'Isola Macquarie
Il naufragio della “Gratitude” sull’Isola Macquarie, in una immagine del 1911 della First Australasian Antarctic Expedition di Frank Hurley (Photo: Mitchell Library, State Library of New South Wales)

Non che dopo la scoperta abbia mai goduto di chissà quale fama, come si può capire dalle dichiarazioni che seguono:

Quest’isola è il posto più tremendo che si possa immaginare dove trascorrere un esilio involontario, in schiavitù”

Capitano James Douglas – 1822

oppure, qualche anno dopo:

“Macquarie non offre niente che invogli a visitarla”

Sottotenente Charles Wilkes

Un secolo più tardi, il riscatto. Finalmente. Dichiarata “Santuario della natura” nel 1933 e “Patrimonio mondiale dell’umanità” dell’Unesco nel 1997, ospita centinaia di migliaia di pinguini e di elefanti marini, nonché svariate specie di uccelli marini e una trentina di ricercatori e scienziati.

Un ecosistema a rischio?

La dismissione della stazione di ricerca, motivata da ragioni economiche più che scientifiche, ha suscitato pertanto numerose polemiche. Si teme che senza di essa potrebbe calare il livello di attenzione sul fragile ecosistema dell’isola, già messo più volte a rischio a seguito della introduzione di specie esterne, quali topi, gatti e conigli. Tanto per dare un’idea, si conta che attualmente i conigli superino le 100.000 unità, e negli anni passati alcune specie endemiche sono state a rischio di estinzione per questo motivo.

L’Isola Macquarie, nella mia immaginazione, potrebbe a pieno titolo far parte di quelle “Lontane isole del vento” di Hugo Pratt, uno dei titoli più evocativi che abbia mai letto. In realtà quella era una storia ambientata nelle calde isole dei Mari del Sud. Altro nome strepitoso, che fa correre la fantasia.

L’Isola Macquarie è anche descritta nel bel libro di Judith Schalansky “Atlante delle Isole Remote” edito da Bompiani, opera suggestiva che sto leggendo con grande piacere.

isola-macquarie
(Photo: M. Murphy, tratta dalla pagina di Wikipedia.org dedicata all’Isola Macquarie)

Che cosa fotografare a Bologna? Tre errori da non ripetere

Che cosa fotografare a Bologna? E’ la domanda che mi sono fatto, da perfetto ingenuo, qualche giorno fa. E nel tentativo di rispondere a questa domanda ho commesso tre errori da non ripetere in futuro. Ma cominciamo con una necessaria premessa, altrimenti non ci si capisce nulla…

Una insperata opportunità …

Dalla nascita di mio figlio, ormai diversi anni fa, non avevo più fatto nessuna vera uscita fotografica. Per i non addetti ai lavori, per uscita fotografica si intende una sorta di estraniazione dallo spazio-tempo completamente dedicata ad un solo obiettivo: quello di fare foto.

Fotografare a Bologna #01

Per tale scopo di solito il fotografo si porta dietro tutta l’attrezzatura che ritiene utile, quasi sempre molto di più di quella necessaria, con la conseguenza di ritrovarsi poi stanco e indolenzito per il gran peso trasportato. Per di più, con la spiacevole sensazione di non aver sfruttato tutto l’armamentario a sua disposizione.

E non uso a caso questo termine, perchè una uscita fotografica in città, specie se dedicata al genere della street photography, è qualcosa per certi versi ricorda una missione di guerra. Zaino in spalla, obiettivi, filtri, batterie di riserve, acqua e viveri, e fotocamera sempre in mano per scattare foto a raffica, appostamenti furtivi e imboscate alle ignare prede. In fotografia e in guerra tutto è lecito.

Fotografare a Bologna #02

Questo genere di uscite fotografiche è quello tipico di molti fotografi, ed è quanto di peggio possa esistere. Si tratta di solito di persone che hanno un approccio superficiale alla fotografia, convinte come sono che l’attrezzatura sia tutto e che in virtù del fatto di possedere corpi macchina e obiettivi professionali le immagini che otterranno non potranno che  essere di pari livello.

Raramente hanno sfogliato qualche libro di fotografia e hanno una cultura dell’immagine limitata. Sono interessati per lo più a mostrare i loro capolavori ad amici e conoscenti, più ignoranti di loro in termini fotografici e dunque facilmente impressionabili, oppure a loro simili su forum web e social media, in una continua e acritica reciproca autocelebrazione.

Fotografare a Bologna #03

In passato non nego di avere fatto anche io questi sbagli, e in abbondanza, ma credevo fossero soltanto errori di gioventù.

E invece… ci sono ricascato come un fesso

Con scarso preavviso mia moglie mi ha chiesto di prendere un venerdì di ferie per accompagnarla ad un corso a Bologna, e nostro figlio è restato al mare con i nonni. Risultato: mi sono ritrovato ad avere un mezzo pomeriggio e due intere mattinate da dedicare anima e corpo alla fotografia. Incredibile ma vero.

Questa notizia inaspettata mi ha spiazzato e per questo motivo sono ricaduto nella sindrome dell’uscita fotografica, come sopra descritta. Immediata ansia da prestazione: che cosa fotografare a Bologna?

Da qui in poi ho iniziato a commettere diversi errori, e cioè….

Il mio primo errore: la ricerca di una scorciatoia

Ho cercato sul web proprio le parole chiave “Che cosa fotografare a Bologna?“, nella speranza di trovare qualche articolo che mi suggerisse le location migliori a cui dedicare le mie fatiche. Ovviamente non ho trovato granché di utile, se non una mera descrizione dei principali monumenti di Bologna e delle tipiche mete turistiche di questa meravigliosa città: Piazza Maggiore, San Petronio, la torre degli Asinelli e la Garisenda, etc.

Fotografare a Bologna #04

Lo spunto più originale sembrava potesse essere quello dei canali visibili dalla finestrella in via Piella. Figuriamoci.  Tutti posti a quali sono state dedicate migliaia di cartoline, dunque difficile sperare di tirare fuori qualcosa di buono.

Seguire questi consigli di visita della città non mi avrebbe di certo portato a scattare foto originali, ma ancora più da fessi sarebbe stato rinunciare a vedere le cose unanimemente ritenute più meritevoli e che non avevo mai visitato. Rinunciare a vedere Bologna per giocare a fare il fotografo: non avrebbe avuto alcun senso.

Fotografare a Bologna #05

Ho pertanto deciso di fare il classico giro turistico delle attrazioni principali, e allo stesso tempo ricercare qualche spunto fotografico interessante nell’anima pulsante della città. E da qui a commettere una altra fesseria il passo è stato breve…

Il mio secondo errore: la presunzione

Chiunque, tranne il sottoscritto, avrebbe intuito che ad andare a visitare i monumenti storici di Bologna avrebbe incontrato soprattutto turisti. I soliti, classici, noiosi turisti. Come me, del resto. Sempre uguali da tutte le parti. Infotografabili. Ed eccolo qui l’atto di presunzione: voler ricercare l’autenticità in mezzo ai turisti e pretendere di cogliere lo spirito di una città in poche ore.

Signore e signori, è arrivato a Bologna il genio della fotografia. In pochi scatti riuscirà a fare quello che migliaia di altri fotografi prima di lui non sono riusciti a fare, e con ben più a tempo a disposizione!

Fotografare a Bologna #06

Come era prevedibile, sono bastate poche decine di scatti per farmi capire che forse dovevo abbassare il tiro. “Lascia perdere l’originalità”. “Lascia perdere la ricerca della autenticità”. “Cerca di fare il meno peggio che puoi, e soprattutto goditi queste insperate e spensierate ore libere dedicate ad una tua passione“. Sono quindi entrato in uno stato d’animo più tranquillo, a metà strada tra la rassegnazione della consapevolezza dei propri limiti e la serenità zen di chi non ha più chissà quali aspettative e ansia da prestazione.

Fotografare a Bologna #07

Mi piacerebbe poter dire che da quel momento in poi ho cominciato a fotografare in maniera migliore, ma questo succede solo nelle favole. La realtà è che le foto hanno continuato ad essere molto mediocri, come si può vedere in questa stessa pagina, ma per lo meno mi sono divertito di più. Ed è questo quello che conta.

Il terzo errore: la scusa del poco tempo

Questa esperienza a Bologna mi ha anche fatto capire una cosa molto importante. In passato ho sempre pensato che il livello delle mie foto non fosse un granché per colpa di cause esterne. In primo luogo la mancanza di tempo. “Se avessi davvero tempo da dedicare alla fotografia, allora sì che tirerei fuori qualcosa di valore!”.

Ho fatto invece la scoperta dell’acqua calda. Ci sono voluti parecchi anni, ma meglio tardi che mai. Non è solo questione di tempo. O meglio, quella è solo una delle tante variabili. E’ vero che la fotografia richiede in primo luogo pazienza, attesa dell’attimo. Che molto spesso non arriva mai. E in questi casi avere tanto tempo a disposizione aiuta.

Nella maggiore delle volte però è un problema di visione, e l’atteggiamento mentale del fotografo risulta decisivo. E’ necessario sviluppare una certa predisposizione d’animo alla creazione artistica. Mettere da parte la razionalità e la programmazione. Massima apertura mentale.

Fotografare a Bologna #08

Non sapere dove guardare e cosa cercare preclude la possibilità di catturare qualcosa di interessante. Ma qualcosa di interessante accade solo di rado, e se non si è in grado di coglierlo è tutto inutile. Occorre in qualche modo amplificare la capacità di vedere e cogliere particolari altrimenti invisibili. Cosa difficilissima, per la quale ho tantissima strada ancora da fare.

Ho capito che mi manca una visione, e mi manca un progetto fotografico. Mi mancano le idee, e mi manca l’esperienza. C’è parecchio da migliorare, e le foto sono di livello mediocre, ma pur con questa aumentata consapevolezza continuerò ad esercitarmi e a divertirmi.

“La domanda che mi sono fatto è simile a quella che si fa qualsiasi turista con una macchina fotografica di fronte ad un paesaggio stupendo: la mia fotografia sarà in grado di comunicare un’esperienza che altri hanno già colto così bene? La risposta è quasi sempre no, ma uno ci prova lo stesso”.

Teju Cole – The New York Times Magazine

tutte le foto © germinazioni

Post scriptum: che poi a Bologna, qualche anno dopo, ci sono pure tornato a fare foto. E non mi sembra che abbia imparato granché nel frattempo.