Serpilonga 2016

Qualche giorno fa ho partecipato per la prima volta alla Serpilonga, la più famosa gara di mountain bike del panorama regionale. In realtà non ho fatto la gara vera e propria, ma ho optato per l’escursione, decidendo di iscrivermi mezz’ora prima della partenza. La parola escursione non inganni, perché non è certo una passeggiata alla portata di tutti. Da Sinnai si sale infatti fino alle antenne del Monte Serpeddì, dopo circa una ventina di km di salita continua, poi si torna in paese in una discesa piuttosto dissestata. In totale, 37 km per 1100 m di dislivello, quasi tutti su sterrato.

Volendo portarmi a casa un ricordo della sfacchinata ho provato a fare un filmato con la GoPro Hero 4, montata sul manubrio con una pinza dedicata.

La buona notizia è che non si sia staccato tutto, nonostante tutte le migliaia di vibrazioni da fossi e pietre che la mia Wilier ha dovuto superare. Anzi, la stabilità di questo montaggio è stata sorprendente.

La cattiva notizia è che il video non è ovviamente un granché. Trattandosi però soltanto di un filmato di meno di un minuto, ho deciso di pubblicarlo comunque perchè rende abbastanza bene l’idea del percorso della Serpilonga.

Ho impostato la GoPro a 1080 con 30 fps, e non so nemmeno se quella fosse la scelta migliore da fare. Dovrò approfondire in futuro. Sono riuscito discretamente bene a registrare brevi filmati nei tratti del sentiero che mi sembravano più interessanti. Purtroppo nella parte finale mi sono dimenticato di premere lo stop per bloccare un filmato che stavo registrando in discesa, e così la batteria si è esaurita prima di arrivare al traguardo. Peccato. Tutta esperienza per la prossima avventura.

Ho montato il filmato con iMovie, in maniera veramente rozza in quanto non mi sono mai interessato di video prima di acquistare la GoPro. Anche in questo caso, ci saranno spero ampi margini di miglioramento.

Per farla breve, eccolo qua:

© germinazioni

La fotografia di montagna di Vittorio Sella

Ho scoperto Vittorio Sella per caso, pochi mesi fa. Da ormai una quindicina di anni sono appassionato di fotografia. Possibile che non lo avessi mai sentito nemmeno nominare?

D’accordo, colpa mia. Non avrò chissà quale cultura fotografica, ma possibile che in Italia un autore di questo calibro non sia celebrato come merita?

Eppure… Ansel Adams lo considerava uno dei maestri della fotografia di paesaggio, affermando che “revealed [the mountains] in all their sheer majesty” e che “the purity of Sella’s interpretations move the spectator to a religious awe“.

Un senso di meraviglia di tipo religioso.

Se vi sembra poco.

Per non parlare poi di quale sia l’opinione dei maggiori esperti internazionali sull’opera di Vittorio Sella.

« Sella is still remembered as possibly the greatest ever mountain photographer. His name is synonymous with technical perfection and aesthetic refinement. »

Jim Curran, K2: The Story of the Savage Mountain

Non ci sarebbe voluto poi tanto a capire di trovarsi al cospetto di un gigante. Ma questa è la cultura nel nostro paese. Me ne farò una ragione, e con umiltà cercherò di apportare il mio modesto contributo, omaggiando Vittorio Sella su questo blog.

Le fotografie di Vittorio Sella

Che poi… per capire la grandezza di Vittorio Sella sarebbe bastato guardare le sue immagini. Eccone qui alcune che ho trovato sul web (mi piacerebbe un giorno o l’altro comprare il libro delle sue opere, chissà che meraviglie vederle stampate come si deve):

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Siniolchu Sikkim, from the Zemu glacier, 1899. (Vittorio Sella, Alpine Club Collection)

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Highest peak of the Rouies as seen from the Cardon Glacier, (1888)

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From the Southern Ridge of Staircase Peak (1909) – Vittorio Sella, Fondazione Vittorio Sella

Fotografie in bianco e nero piene di fascino, realizzate in maniera tecnicamente perfetta. E non con moderne attrezzature dotate di automatismi quasi infallibili, ma con fotocamere di più di cento anni fa!

Le immagini di Vittorio Sella erano ottenute da lastre 30 x 40 caricate su pesanti e ingombranti apparecchiature, che dovevano essere trasportate in alta montagna in condizioni difficilmente immaginabili. Era l’epoca pionieristica dell’alpinismo, e la foto qui sotto rende l’idea di cosa stiamo parlando:

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Uomini coriacei che con funi e abiti improbabili scalavano le vette in condizioni quasi impossibili. Che come se non bastasse, e come se la pura sopravvivenza non fosse già il massimo obiettivo auspicabile, si portavano dietro attrezzature fotografiche altrettanto primitive.

Eppure, nonostante tutto ciò, Vittorio Sella riuscì a scattare fotografie di una bellezza mozzafiato. Non si può che rimanere stupefatti.

Ed eccolo qui infine, il nostro eroe. Al centro della foto, con una piccozza in mano e circondato da altri quattro memorabili personaggi:

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Ed infine qui, in una foto più posata e ufficiale:

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Non so perchè, ma lo immagino più felice e a suo agio nella prima di queste ultime due foto. Tra le sue montagne predilette, la cui perfezione e austera bellezza ha immortalato per l’eternità.

Mary Anning, la bambina cacciatrice di fossili

La storia di Mary Anning è sorprendente. L’ho scoperta per la prima volta leggendo “Breve storia di quasi tutto” di Bill Bryson, un libro “eccezionalmente piacevole”, per riportare la recensione del The Times.

Un’infanzia travagliata

Nata nel 1799 a Lyme Regis, in Inghilterra, in una famiglia molto povera, insieme al fratellino Joseph fu l’unica ad arrivare all’età adulta. Gli altri nove fratelli e sorelle morirono tutti prima di arrivare ai cinque anni, molti di malattia e altri di disgrazia. Uno dei fratelli morì all’età di quattro anni quando la madre lo lasciò solo per alcuni minuti in una stanza con il pavimento ricoperto di trucioli, che prese accidentalmente fuoco a causa di una scintilla.

Erano tempi duri, e anche Mary Anning rischiò di fare una brutta fine. Quando aveva poco più di un anno, si trovava in braccio ad Elizabeth Haskings, una amica di famiglia, quando scoppiò un temporale. Elizabeth e altre due donne si ripararono sotto un albero, con la bimba sempre in braccio. Vennero colpite da un fulmine e morirono tutte. Tranne Mary Anning.

Imparò a malapena a leggere e a scrivere, ma fu istruita fin da piccola dal padre, falegname ed ebanista, a ricercare, estrarre dalle rocce e ripulire piccoli fossili, soprattutto ammoniti, di cui le scogliere del Dorset erano particolarmente ricche.

ammonite-del-dorset

All’epoca non si capiva ancora bene cosa fossero, ma i turisti erano lieti di acquistare queste curiosità naturali come souvenir. Alcuni credevano anche che queste strane pietre, chiamate snake-stones per motivi facilmente immaginabili, avessero misteriose proprietà medicinali.

La prima incredibile scoperta

Quando Mary Anning aveva soltanto undici anni, il padre morì, secondo alcuni di tubercolosi secondo altri cadendo da una scogliera mentre cercava ammoniti. Quel che è certo è che lasciò la famiglia nella miseria. Per racimolare qualche soldo, Mary e il fratello continuarono a cercare fossili, e fu proprio Joseph nel 1811 a scoprire tra le rocce un cranio, lungo più di un metro, di uno strano animale. Nei mesi successivi Mary Anning riuscì pazientemente, e con una abilità fuori dal comune tenuto conto degli strumenti rudimentali di cui disponeva, a estrarre l’intero corpo dell’animale. Non sapendo bene come classificarlo, venne identificato come una strana specie di coccodrillo e venduto al collezionista di curiosità naturali William Bullock.

Un disegno di Everard Home del 1814 che ritrae lo strano teschio ritrovato da Joseph Anning
Un disegno di Everard Home del 1814 che ritrae lo strano teschio ritrovato da Joseph Anning

Fu finalmente Charles Konig, un naturalista del British Museum, a capire che non si trattava di un coccodrillo e a dare il nome allo strano rettile marino: Ichthyosaurus platyodon (ittiosauro, per gli amici).

E non finisce qui…

Nel 1820 scoprì il primo scheletro di plesiosauro, e riuscì a ricostruirlo in maniera talmente mirabile, come si può osservare al “Sedgwick Museum” di Cambridge dove è tuttora esposto, che l’esploratore tedesco Ludwig Deichart la soprannominò «la principessa della paleontologia».

Talmente sorprendente era questo ritrovamento di un animale mai visto prima, addirittura con 35 vertebre cervicali, che ci fu anche chi accusò Mary Anning di falsificare i reperti, come il naturalista francese Georges Cuvier, all’epoca considerato la massima autorità in materia. Poco tempo dopo Mary Anning scoprì un altro scheletro completo e Cuvier non poté far altro che rimangiarsi le proprie accuse, affermando anzi che si trattava della “creatura più sorprendente che sia stata mai scoperta”.

plesur-museum

Nel 1828 scoprì il primo scheletro di pterosauro e la sua fama crebbe a tal punto da far scrivere a Lady Harriett Silvester nel 1824: “Meraviglioso esempio del favore divino, quella povera ragazza ignorante… grazie alle sue letture e alla sua diligenza, è arrivata a un grado di conoscenza tale da potersi intrattenere con professori ed altre persone competenti, e tutti riconoscono che ne capisce più di scienza di chiunque altro nel regno».

I riconoscimenti, finalmente

Nel 1830 Henry De la Beche dipinse un celebre acquerello, il Duria Antiquior, nel quale sono rappresentati gli animali scoperti da Mary Anning nel loro ambiente naturale:

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Grazie alle sue scoperte si ebbe la conferma per la prima volta che la Terra era incredibilmente più antica di quanto allora si pensasse, e che c’era stata un’epoca nella quale i rettili dominavano la terra, il cielo e il mare. Questa bambina di umili origini diede un contributo fondamentale alla geologia e alla teoria dell’evoluzione, nonché al riconoscimento del ruolo delle donne anche il campo scientifico.

La vendita di questi fossili portò a Mary Anning un discreto benessere economico, sebbene tra alterne fortune, e continuò pertanto a cercarli per tutta la vita. Le scogliere erano però impervie ed estremamente pericolose, tanto più tenendo conto del fatto che il periodo dell’anno più propizio per la ricerca dei fossili era l’inverno, quando le intemperie provocavano piccole frane che esponevano le rocce sottostanti. Fu proprio durante una di queste frane che Mary Anning rischiò di perdere la vita. Riuscì a salvarsi, ma non così il suo amato cane Tray. Morì invece di cancro al seno a 47 anni.

Ed eccola qui la nostra Mary Anning, nel più celebre quadro che la ritrae. Con la picozza in mano, un ammonite, un teschio fossile e il fedele Tray ai suoi piedi:

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E per finire, se volete divertirvi, provate a pronunciare velocemente il famoso scioglilingua inglese a lei ispirato:

She sells seashells on the seashore
The shells she sells are seashells, I’m sure
So if she sells seashells on the seashore
Then I’m sure she sells seashore shells

“The mountaineer’s courtship” e “The Spanish merchant’s daughter”

“The mountaineer’s courtship” e “The Spanish merchant’s daughter” sono due vecchi e suggestivi brani country tradizionali inclusi nel terzo volume della imperdibile “Anthology of American folk music” di Harry Smith. Questa mattina mi è capitato di ascoltarli uno di seguito all’altro e me ne sono innamorato.

Incise tra il 1927 e il 1928 da Ernest “Pop” Stoneman con la moglie Hattie Frost, sono due divertenti canzoni costituite da uno scambio di battute a mo’ di botta e risposta tra un uomo e una donna. Un vero e proprio  corteggiamento.

Ernest e Hattie Stoneman con il resto dei musicisti
Ernest Stoneman (seduto al centro con la chitarra classica) e la moglie Hattie con il resto dei musicisti

Questo è il testo di “The mountaineer’s courtship”, ovvero il corteggiamento del montanaro. Nelle prime battute  è tutto rose e fiori, la donna è perdutamente innamorata e chiede all’uomo quando si deciderà a sposarla. Man mano che la canzone va avanti saltano però fuori delle sorprese. Il montanaro in realtà ha già sei figli da una precedente relazione, di cui la donna ignorava l’esistenza. Peggio ancora, è un morto di fame: non ha nemmeno un calesse con cui venirla a prendere per il matrimonio, ma soltanto una slitta da tronchi trainata da un bue. La donna prova a questo punto a porre rimedio e a fare marcia indietro. Ma ormai è troppo tardi, e il danno è fatto: la zia Sally ha già ucciso e spiumato l’oca per imbottire il letto per lo sposo.

Oh, when are you coming to see me?
To see me, to see me?
Oh, when are you coming to see me,
My dear old reckless boy?

I expect I’ll come next Sunday.
Next Sunday, next Sunday.
I expect I’ll come next Sunday,
If the weather is good.

Oh, how long you think you’ll court me?
You’ll court me, you’ll court me?
Oh, how long you think you court me,
My dear old reckless boy?

I expect I’ll court you all night.
All night, all night.
I expect I’ll court you all night,
If the weather is good.

Oh, when do you think we’ll marry?
We’ll marry, we’ll marry?
Oh, when do you think we’ll marry,
My dear old reckless boy?

I expect we’ll marry in a week.
In a week, in a week.
I expect we’ll marry in a week,
If the weather is good.

Oh, what’re you gonna ride to the wedding in?
To the wedding in, to the wedding in?
Oh, what’re you gonna ride to the wedding in,
My dear old reckless boy?

I expect I’ll bring my log sled.
My log sled, my log sled.
I expect I’ll bring my log sled,
If the weather is good.

Oh, why not bring your buggy?
Your buggy, your buggy?
Oh, why not bring your buggy,
My dear old reckless boy?

My ox won’t work to the buggy.
To the buggy, to the buggy.
My ox won’t work to the buggy,
‘Cause I’ve never seen him try.

Oh, who’re you gonna bring to the wedding?
To the wedding, to the wedding?
Oh, who’re you gonna bring to the wedding,
My dear old reckless boy?

I expect I’ll bring my children.
My children, my children.
I expect I’ll bring my children,
If the weather is good.

Well, I didn’t know you had any children.
Any children, any children.
Well, I didn’t know you had any children,
My dear old reckless boy.

Oh, yes I have six children.
Six children, six children.
Oh, yes I have six children,
Joe, Jim, John, Sally and the baby.

Run and tell aunt Sally,
Aunt Sally, aunt Sally,
Oh, run and tell aunt Sally,
The old gray goose is dead.

The one that she’s been saving,
Been saving, been saving,
The one that she’s been saving,
To make her feather bed.

Clicca qui per ascoltare The mountaineer’s courtship su iTunes

Clicca qui per ascoltare The Spanish merchant’s daughter su iTunes

Anthology of american folk music

Questi due brani rappresentano anche l’occasione, su questo blog, di introdurre per la prima volta la “Anthology of American folk music”. Pubblicato nel 1953 dalla Folkways Records, è uno dei dischi più influenti nella storia della musica americana. Una autentica miniera d’oro musicale. E non mancherà certamente l’occasione  di parlarne più in dettaglio in futuro.

Riportando tutto a casa, e la pratica della chitarra

“Riportando tutto a casa”: così si potrebbe tradurre il capolavoro Bringing it all back home di Bob Dylan, uscito nel marzo del ’65. Il titolo del disco era una chiara dichiarazione di intenti, quella cioè di riportare in America un certo tipo di musica, che dopo gli splendori del rock&roll di Elvis Presley negli anni ’50, proseguiva la sua evoluzione in Inghilterra, dove era stata rivisitata e proposta in chiave più moderna.

Pur nell’evoluzione dello stile e degli arrangiamenti, le canzoni dell’epoca nascevano per lo più con finalità di intrattenimento e per spingere le persone a ballare. Le tematiche quasi sempre restavano leggere. Dylan  in quegli anni era etichettato, anche suo malgrado, il profeta assoluto del folk, genere musicale nel quale la parola ricopriva invece un ruolo determinante rispetto alla parte suonata. Con Bringing it all back home iniziò un vorticoso e rivoluzionario processo attraverso il quale riuscì ad amalgamare in maniera magistrale folk, blues e rock&roll con poesia e letteratura. Nel luglio del ’65, a pochissimi mesi di distanza, Dylan fece uscire un altro disco, Highway 61 revisited, il cui brano di apertura, Like a rolling stone, è considerato il momento fondante del rock.

Questa è la meravigliosa copertina del disco. La foto scattata da Daniel Kramer ritrae Dylan con Sally Grossman, la moglie del suo manager, e tutta una serie di oggetti simbolici troppo lunghi da elencare…

Ma perché tutto questo preambolo? Per parlare di un argomento che mi sta a cuore ma che non c’entra granché con tutto ciò. Cosa che giustifica ancora meno questa introduzione. Ma tant’è. Pur rendendomi conto della imperdonabile presunzione di voler fare anche solo un accostamento del genere, sento infatti forte la necessità di “riportare tutto a casa”. Che nella mia mente bacata non è altro che un modo più cerebrale di dire: “facciamo il punto della situazione”.

Nella mia vita ho sempre avuto un sacco di cose alle quali mi sono appassionato. Alcune hanno avuto durata effimera, altre sono rimaste costantemente in cima ai miei pensieri, altre ancora hanno avuto momenti di luna di miele, periodi di oblio e successivi improvvisi ritorni di fiamma. Come era ovvio, ad un certo punto – meglio tardi che mai, ma nel mio caso è un problema ricorrente – mi sono reso conto che non sarebbe stato possibile portare avanti tutti quanti questi interessi. Una scrematura era necessaria.

O meglio, avrei potuto anche continuare così come ho sempre fatto, a saltellare da una cosa all’altra. Ma con la cosiddetta maturità ho anche capito che il tempo a disposizione non sarebbe stato infinito, con tutte le limitazioni che ne sarebbero seguite. Alcuni interessi, infatti, per essere sviluppati nel modo in cui intendevo io avrebbero avuto bisogno di tempo – parecchio tempo! – e dedizione non momentanea.

Il giorno in  cui ho deciso di imparare a suonare la chitarra

L’esempio più eclatante nel mio caso, quello che mi ha letteralmente fatto aprire gli occhi, è stato quello della chitarra. Ne ripercorro brevemente la storia, per me molto significativa. Ho ricevuto, sua mia richiesta, una chitarra in regalo da uno zio per i miei 18 anni. Dopo aver preso tre o quattro lezioni da un amico di famiglia, dopo qualche settimana ho rinunciato. E per quasi vent’anni la chitarra è rimasta a prendere polvere.

Fino al 28 ottobre 2009.

Quel giorno, mentre guardavo una puntata di X Factor con mia moglie ho avuto una improvvisa folgorazione. Francesco De Gregori e Morgan hanno eseguito “Il suonatore Jones”, dal capolavoro “Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André.

Libertà l’ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.

E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.

La combinazione di testo e musica, profondamente evocativi, unitamente al suono della chitarra e dell’armonica a bocca, mi hanno completamente stregato. In quel preciso momento, e lo ricordo come fosse ieri, ho deciso che avrei dovuto imparare a suonare uno strumento musicale. Chitarra o armonica a bocca. Avendo già la chitarra, la scelta è stata semplice. Ho acquistato il manuale “Chitarra per negati” e scaricato un corso dal web, con delle videolezioni di buon livello.

Una illustrazione di “Fiddler Jones” (Il suonatore Jones) tratta da una edizione del poema “The Spoon Rive Anthology” di Edgar Lee Masters, a cui si è ispirato De Andrè.

Che cosa ho imparato dalla (mancata) pratica della chitarra

Ho iniziato a strimpellare, con molta difficoltà. La diteggiatura mi sembrava impossibile. Premere le corde una tortura. Certi movimenti, anche banali, difficilissimi. Riuscivo a farli ma a costo di una estrema lentezza e concentrazione. I suoni che ne venivano fuori, manco a dirlo, erano orrendi. Alcune posizioni delle dita, che vedevo nelle pagine successive ai primissimi capitoli, mi sembravano addirittura impensabili e irrealizzabili. La mia mano ormai non aveva più la mobilità per fare certe cose. Troppo tardi. Ho anche pensato di avere le dita corte per la chitarra. I polpastrelli troppo grossi, poco affusolati e non adatti.

Comunque sia, pur con grandi difficoltà, mi sono posto l’obiettivo di esercitarmi tutti i giorni per una ventina di minuti. Alcuni rari giorni ci sono riuscito, molti altri li ho saltati. Ho avuto dei lunghi periodi nei quali non ho toccato la chitarra. Per mesi. In un attimo sono passati cinque anni.

Cinque anni nei quali, nella mia testa, ero convinto di fare chitarra. Se qualcuno mi avesse chiesto: “Stai suonando la chitarra?”, avrei risposto: “E’ da cinque anni che mi esercito, ma i progressi sono scarsi. Evidentemente non sono portato.

La mia Epiphone Les Paul II Ultra
La mia Epiphone Les Paul II Ultra, regalo di mia moglie nel Natale 2010.
© germinazioni

E adesso viene il bello

Peccato solo che un giorno mi sono messo a fare un po’ di conti. E sono stati conti impietosi. In cinque anni, sommando tutte le volte in cui mi ero messo a suonare, non avevo superato le ottanta ore di esercizio.  Soltanto ottanta ore! Una ridicola media di 16 ore all’anno. Poco più di un’ora al mese!

A questo punto era tutto chiaro.

Non solo sarebbe stato impossibile pretendere di imparare a suonare la chitarra dedicandoci un’ora al mese. Ma ancora peggio è stato scoprire di avere una convinzione distorta, legata ad una percezione del passare del tempo completamente sbagliata. Non so perché ciò avvenga, ma non è un caso isolato. Quante volte ci ripromettiamo di fare una determinata cosa, e ci diciamo “Domani inizio”, salvo poi accorgerci che sono passati anni – anni! – e non abbiamo ancora combinato nulla?

Con questa consapevolezza alle spalle, ho deciso allora di riprendere a suonare la chitarra con più dedizione. Già che c’ero, mi sono posto un obiettivo ambizioso e a lungo termine.

Cinquemila ore di pratica.

Perché proprio questo numero? Perché è la metà esatta di 10.000, ovvero il numero di ore che una certa teoria considera necessarie per raggiungere un discreto grado di maestria in qualcosa. A patto che si tratti di ore nelle quali si eserciti la cosiddetta deliberate practice, concetto tutt’altro che trascurabile ma che non ho voglia di approfondire in questa sede. Anni fa ho letto il libro di Malcolm Gladwell che ne parlava, e che sia vera o meno questa teoria, poi smentita da altri studi, di una cosa ero sicuro. Dopo 5.000 ore di chitarra, qualche progresso lo farò. Almeno si spera. Non saranno diecimila ore, e non mi consentiranno di arrivare a chissà quale maestria, ma dovrebbero essere più che sufficienti per strimpellare qualcosa in maniera dignitosa.

Cinquemila ore però non sono poche, e ho calcolato che anche nella più ottimistica delle ipotesi avrei potuto dedicare alla chitarra una quarantina di minuti al giorno. Ho iniziato domenica 10 gennaio 2016, con la previsione di terminare (salute e altre cose permettendo ovviamente) per lunedì 24 marzo 2036. Vent’anni di chitarra. A quaranta minuti al giorno. Non male.

Ho utilizzato l’app Persistence, nell’iPhone, per tenere traccia di questa attività. Fino al 15 febbraio sono riuscito a non saltare neppure un giorno. Ancora non riesco a capire come ho fatto, ma ero proprio concentrato anima e corpo su questo obiettivo. Tornavo a casa da lavoro e anche se ero stanco, mi mettevo dieci minuti a fare chitarra. Poi un altro quarto d’ora durante una pausa nei giochi con mio figlio o nelle incombenze quotidiane. Poi altri quindici minuti ritagliati chissà come. Per quasi un mese ho saltato diversi giorni, ma non volevo desistere. Dal 10 marzo fino al 30 luglio ho avuto un buon periodo di continuità, nel quale sono riuscito a saltare pochissimi giorni. Poi black-out estivo quasi completo, a causa del quale sono arrivato a -90 giorni sulla tabella di marcia.

Ma non desisto, e cercherò di riprendere quanto prima.

La scomparsa di Amelia Earhart e tre isole del Pacifico

Amelia Earhart, l’isola Howland e l’isola Macquarie: un’altra delle coincidenze di cui mi piace parlare su questo blog. Qualche giorno fa guardavamo con grande spasso di mio figlio “Una notte al museo 2”, e tra i vari personaggi compariva proprio la famosa aviatrice, interpretata da Amy Adams. Non so per quale motivo, l’ho cercata allora su Wikipedia e ho scoperto che Amelia Earhart scomparve nel nulla nel 1937 durante l’avvicinamento finale all’isola Howland, nel tentativo di circumnavigazione del globo seguendo la rotta più lunga mai effettuata, pari a circa 47.000 km.

La mappa della rotta di Amelia Earhart nel tentativo di circumnavigazione del globo attorno all'Equatore
La mappa del New York Herald Tribune del 1937, con riportata la rotta del tentativo di Amelia Earhart di essere la prima donna ad effettuare la circumnavigazione del globo attorno all’Equatore (immagine tratta da Purdue University Libraries).

Ho quindi cercato nell’Atlante delle Isole Remote di Judith Schalansky l’Isola Howland, e ho scoperto che essa si trova, guarda un po’, proprio nella pagina precedente all’Isola Macquarie, della quale ho parlato qualche giorno fa in questo articolo. Come se poi non bastasse, il giorno successivo ho letto sul Post la traduzione di un articolo di Cleve R. Wootson Jr., uscito sul The Washington Post, nel quale si formulano nuove ipotesi sulla morte di Amelia Earhart. Insomma, ce n’era abbastanza per incuriosirmi e fare qualche ricerca sulla storia dell’aviatrice e sulle isole del Pacifico di cui si parlava.

La scomparsa di Amelia Earhart

Era l’epoca d’oro dell’aviazione, quella pionieristica nella quale c’erano ancora record da battere e trasvolate ancora mai tentate. Amelia Earhart era l’eroina nazionale americana. Prima donna ad avere attraversato l’Atlantico nel 1928. Prima donna ad effettuare la trasvolata in solitaria dell’Atlantico nel 1931. Prima donna ad attraversare gli Stati Uniti senza scalo nel 1932. Prima donna ad effettuare la trasvolata del Pacifico. Una leggenda vivente.

394033 03: (FILE PHOTO) Amelia Earhart stands June 14, 1928 in front of her bi-plane called "Friendship" in Newfoundland. Carlene Mendieta, who is trying to recreate Earhart's 1928 record as the first woman to fly across the US and back again, left Rye, NY on September 5, 2001. Earhart (1898 - 1937) disappeared without trace over the Pacific Ocean in her attempt to fly around the world in 1937. (Photo by Getty Images)
Amelia Earhart davanti al biplano “Friendship” nel giugno del 1928, nell’Isola di Terranova (Photo by Getty Images)

Alla mezzanotte del 2 luglio 1937, Amelia Earhart e il secondo navigatore Fred Noonan, fecero alzare in volo il Lockheed Electra L10, da lei appositamente modificato, dalla pista di Lae, in Nuova Guinea. La loro destinazione, dopo 4.113 km di volo sopra l’Oceano Pacifico, sarebbe dovuta essere un minuscolo e quasi invisibile fazzoletto di terra disperso nel mare infinito. Un atollo disabitato di pochi chilometri quadrati, chiamato Isola Howland.

L’Isola Howland

Con un fuso orario UTC-12 è l’ultimo posto al mondo in cui avviene il cambio della data. Volendo festeggiare il Capodanno in quest’isola, dovrete armarvi di pazienza e aspettare un giorno in più.

Ma non era questa peculiarità dell’isola che interessava Amelia Earhart. L’Isola Howland, e basta guardarla dal cielo per capirlo, sembra esser stata disegnata apposta per essere una perfetta pista di atterraggio in mezzo al nulla. Allungata, perfettamente piatta e priva di vegetazione.

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Una affascinante mappa dell’Isola Howland (immagine tratta da britishempire.co.uk)

Il problema è che è piccola, troppo piccola. Quasi invisibile. Basta una nuvola qualsiasi per nasconderla alla vista. Negli anni ’30 le tecniche di navigazione aerea erano ancora pionieristiche, e per tale motivo il cutter USCGC Itasca della United States Coast Guard avrebbe dovuto guidare il Lockheed Electra  fino all’Isola Howland tramite navigazione radio.

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Ma qualcosa andò storto, e alle 07.42 del 2 luglio Amelia Earhart trasmise via radio:

“Dovremmo essere sopra di voi, ma non riusciamo a vedervi — ma il carburante si sta esaurendo. Non siamo riusciti a raggiungervi via radio. Stiamo volando a 1.000 piedi “

L’Itasca inviò segnali in codice Morse, ma dall’aereo non riuscirono a determinarne la direzione. Alle 08:43 arrivò un nuovo messaggio dalla aviatrice:

“Siamo sulla linea 157 337. Ripeteremo questo messaggio. Ripeteremo questo messaggio a 6210 kHz. Attendete».

Poco tempo arrivò l’ultimo messaggio dal Lockheed Electra:

“Stiamo volando in linea nord e sud”

Dopodiché, le tracce di Amelia Earhart si persero per sempre. Per le ricerche il presidente Roosvelt schierò 9 navi e 66 aerei, per un costo di vari milioni di dollari dell’epoca. Ma senza successo.

Negli anni successivi sono state avanzate innumerevoli ipotesi sulla scomparsa di Amelia Earhart. La più accreditata è quella dell’incidente e affondamento. Una volta terminato il carburante, l’Electra sarebbe sarebbe stato costretto ad un ammaraggio di emergenza non lontano dall’Isola Howland, e i due piloti sarebbero quindi morti annegati. Tra il 2002 e il 2006 sono state compiute ricerche sottomarine del fondo oceanico, per un costo di svariati milioni di dollari, ma il relitto dell’aereo non è stato mai trovato.

L’ipotesi dell’atollo di Nikumaroro

Secondo la teoria dell’International Group for Historic Aircraft Recovery (TIGHAR) Amelia Earhart sarebbe ammarata nell’atollo di Nikumaroro, un’isola disabitata dell’Arcipelago delle Isole della Fenice, distante 643 km a sud dell’Isola Howland.

E tra parentesi… che nome fantastico! Arcipelago delle Isole della Fenice. Mi sarei appassionato a questa storia anche solo per aver scoperto questo nome!

A favore di questa ipotesi si riporta come prova principale il fatto che nel 1991 sarebbe stato ritrovato a Nikumaroro un pannello di alluminio proveniente dal Lockheed Electra della Earhart, nonché la  triangolazione delle chiamate radio effettuate dal velivolo dopo l’ammaraggio.

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L’ipotesi della scomparsa di Amelia Earhart del gruppo TIGHAR.

Questa ipotesi ha parecchi elementi che lasciano perplessi, ma mi hanno portato a cercare l’atollo di Nikumaroro sul web, e a esplorarlo virtualmente su Google Earth: che meraviglia!

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Un’immagine tratta dal video della spedizione NAI’A del 2015 sull’atollo di Nikumaroro

 E con questa immagine finisce questa storia, che da una film di Hollywood mi ha condotto ad una affascinante avventura nella storia dell’aviazione e nelle meraviglie del Pacifico.