Ho visto di recente su Netflix “Unbranded”, un bel documentario di Phillip Baribeau. Quattro ragazzi, appena terminata l’università, decidono di condurre sedici mustang dal confine del Messico a quello del Canada. Un viaggio di 3.000 miglia attraverso paesaggi spettacolari e grandiosi. Del resto, nell’Ovest americano non poteva essere altrimenti. Una infinita sensazione di libertà e avventura, come solo questi posti sanno dare. Saranno le suggestioni delle letture fatte – Ken Parker su tutti – sarà il viaggio che abbiamo fatto nel 2008 in auto in Arizona, Colorado, Utah e Nevada, ma il West resta sempre sconfinato e bellissimo. Soprattutto quando visto dalla sella di un cavallo.
Difficile immaginare un modo più autentico e suggestivo di percorrere le praterie, i deserti, le foreste e le montagne di questo sconfinato Paese.
Scopo del viaggio, a parte quello di vivere un’avventura straordinaria prima di finire stritolati nei meccanismi infernali del mondo del lavoro, è stato quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dei mustang.
Discendenti dei cavalli introdotti nel continente americano dagli Spagnoli nel 1500, i mustang non sono altro che cavalli diventati selvatici dopo essere sfuggiti ai loro proprietari. Nel tempo hanno dato origine a numerosi branchi, e vederli mentre corrono non può che suscitare la più grande ammirazione. Agli inizi del 1900 erano circa un milione, dopodiché il loro numero è crollato drasticamente, a seguito della netta riduzione dei pascoli liberi (open range) e del loro abbattimento indiscriminato per evitarne la competizione con il bestiame d’allevamento. Ad oggi si stima che esistano tra i 40.000 e i 100.000 mustang, concentrati in gran parte in Nevada.
Per controllare la loro proliferazione, e al contempo evitarne l’estinzione, i mustang sono stati messi sotto protezione dal Bureau of Land Management. I cavalli eccedenti il numero stabilito vengono quindi catturati e tenuti in cattività all’interno di appositi recinti. Manco a dirlo, per questi animali che sono l’emblema stesso del senso di libertà e incarnano anche esteticamente lo spirito più selvaggio e autentico, nonché mitizzato, dell’Ovest americano, si tratta della condizione più avvilente e umiliante. I recinti e le sbarre, quando posti davanti ad un animale, appaiono sempre orrendi e disonorevoli. Nel caso dei mustang, la sensazione è amplificata all’ennesima potenza.
Peggio che mai, la normativa introdotta dal Congresso nel 2005 consente attualmente di vendere i mustang in cattività da più di dieci anni e quelli per i quali non si è riusciti a procedere all’adozione. La vendita è finalizzata alla macellazione di questi fieri animali, la cui carne pregiata è pagata a caro prezzo nei ristoranti europei e giapponesi.
E’ quindi facile capire come lo scontro tra i fautori della necessità di tenere sotto controllo la popolazione dei mustang (per finalità di protezione… e qui anche involontariamente non si può non pensare ad analoghe forme di ipocrisia occorse nella nostra storia anche recente) e i promotori della tutela totale di questi cavalli, abbia raggiunto livelli di conflitto non irrilevanti. Difficile entrare nel merito di queste questioni. Soprattutto è da evitare la presunzione di voler emettere giudizi su un problema complesso del quale prima di questo documentario ignoravo l’esistenza.
Ma allo stesso tempo è per me impossibile non auspicarmi che i branchi di mustang che corrono liberi e selvaggi nell’Ovest americano continuino sempre ad esistere e ci ispirino le migliori cose, come hanno sempre fatto e sempre continueranno a fare. Ben triste sarebbe un mondo senza questi cavalli.