E’ stata scoperta una nuova tribù in Amazzonia?

E’ stata scoperta una nuova tribù in Amazzonia non ancora venuta a contatto con la nostra cosiddetta civiltà. Il fatto che vengano ancora fatte scoperte di questo genere è senza dubbio la migliore delle notizie di queste feste di Natale 2016. Mi sembrava perciò doveroso citarla in questo modesto blog. Che sta assumendo nel tempo, pur con i pochi articoli che ho avuto il tempo di scrivere, una identità lievemente più precisa ma ancora lontana da quella che voleva essere nelle intenzioni iniziali.

Il fotografo brasiliano Ricardo Stuckert ha casualmente individuato una popolazione indigena al confine tra il Brasile e il Perù ed è riuscito a scattare alcune memorabili immagini dall’elicottero, che ha poi concesso a National Geographic. Gli indios appaiono spaventati e intimoriti, e uno di loro sembrerebbe voler tirare una freccia contro l’elicottero.

Leggendo più attentamente sembrerebbe in realtà che questa tribù sia stata individuata dai ricercatori per la prima volta già qualche anno fa, ma si sia spostata dalla zona di foresta nella quale in precedenza abitava. In un’altra delle foto un indigeno tiene in mano un machete di chiara fattura moderna, pertanto la tribù ha certamente avuto in passato qualche sporadico contatto con la civiltà. Parlare quindi di una popolazione ancora ferma al Neolitico non è del tutto esatto, ma di certo ci andiamo molto vicini.

Peccato, perché l’idea che nel 2016 ci fosse sulla Terra ancora qualcuno immune dalle nostre stronzate mi attirava parecchio. Ma era troppo bello per essere vero.

Mi piace però pensare che nella meravigliosa foresta amazzonica ci sia ancora qualcosa da scoprire. Chissà…

Austin to Boston… suonando on the road negli States

Ho visto qualche mese fa su Netflix un bel documentario intitolato “Austin to Boston”. Racconta di un viaggio di tremila miglia compiuto in due settimane, su quattro vecchi pulmini Volkswagen, da quattro diverse band. Folk rock e il bluegrass i generi musicali che fanno da colonna sonora – e colonna portante – di questo tour vecchio stampo.

Ben Howard & the band, The Staves, Nathaniel Rateliff e Bear’s Den. Questi i nomi degli artisti protagonisti di questa avventura. La narrazione è ben congegnata, e alterna momenti più intimi e riflessivi con altri immancabili in qualsiasi racconto on the road che si rispetti. Se si tratta di un on the road negli Stati Uniti, diventa difficile uscire dagli stereotipi dell’immaginario collettivo. Ma la regia di James Marcus Haney e la narrazione di Gill Landry riescono a confezionare un prodotto discretamente riuscito, punteggiato da brani piacevoli e suggestivi.

Le armonizzazioni delle Staves rappresentano la parte più interessante del documentario, e particolarmente suggestiva è la loro interpretazione di “Chicago” di Sufjan Steven. Altro brano che adoro, anche nella sua versione originale. Non ho trovato lo spezzone tratto da “Austin to Boston” nel quale lo cantano, ma quest’altro video amatoriale rende comunque l’idea:

Prodotto da Ben Lovett dei Mumford & Sons (altra garanzia di qualità nel folk moderno), “Austin to Boston” è un documentario che merita di essere visto, soprattutto se vi piacciono i viaggi on the road, la freschezza della giovinezza, nonché questi generi musicali. Se poi aspirate, come me, di riuscire prima o poi a suonare la chitarra in grazia di dio, vi sarà di grande ispirazione.

Austin to Boston

“La terra dei figli” di Gipi

“La terra dei figli” è l’ultimo lavoro di Gipi, celebre e pluripremiato fumettista italiano. Ne avevo sempre sentito parlare, ma non avevo mai letto una sua opera. Per mia fortuna, “La terra dei figli” mi è stato regalato ieri notte dai miei per Natale, e nel giro di poche ore l’ho divorato. Bellissimo.

Dal punto di vista grafico, è molto ben disegnato. Con il tratto di penna (o come diavolo si chiama lo strumento utilizzato da Gipi), a volte essenziale ma più spesso molte ricco ed elaborato, riesce a costruire alla perfezione un’atmosfera immersiva e post-apocalittica. Il mistero permea ogni pagina immergendo il lettore in una sensazione di mistero e disagio simile a quella di “Cuore di tenebra” di Conrad.

L’orrore! L’orrore!

Al centro della storia stanno i sentimenti umani più profondi e primordiali, con un viscerale bisogno di conoscere una verità, della quale come sempre non si può avere altro che una intuizione. Nulla di più.

La terra dei figli

Edito da Coconino Press – Fandango, in una edizione molto ben curata con copertina rigida, lo raccomando caldamente. Si tratta di una lettura adulta, non adatta ai più giovani, sia per la crudezza di alcune tavole sia per la complessità del messaggio che l’autore ha voluto trasmettere.

Ecco alcune delle tavole che mi sono piaciute di più tratte da “La terra dei figli” di Gipi. Dal punto di vista grafico e compositivo, come si può ben vedere sono in grado di rendere molto bene le diverse atmosfere che si accompagnano ai mutamenti dello stato d’animo del lettore con il procedere della trama.

Meravigliosa anche la sensazione di incapacità di lettura e di comprensione del diario del padre, espressa alla perfezione con lo stratagemma utilizzato dall’autore.

Resta come già detto una sensazione di inspiegabile – e per questo ancora più potente – desolazione e angoscia, ben espressa anche con l’unica spiegazione che viene fornita di supporto alla storia:

La terra dei figli

The Hope Six demolition project, di PJ Harvey

Sto ascoltando in questi giorni “The Hope Six demolition project”, ultimo album della grande PJ Harvey uscito qualche mese fa. Artista sofisticata e ultra cool, nonché eccellente polistrumentista (che invidia!), ha realizzato il disco con una recording session durata più di un mese alla Somerset House di Londra, nella quale gli artisti provavano dietro una parete di vetro di fronte agli spettatori paganti. Arte nell’arte.

Dopo “Let England shake”, il pluripremiato e osannato disco precedente del 2011, la nostra Polly Jean tira fuori un altro capolavoro. Album molto raffinato, curato come sempre in maniera maniacale e suonato da musicisti eccellenti, “The Hope Six demolition project”, contiene parecchi brani affascinanti, a cominciare dalla bella melodia di “The community of Hope” per continuare con le chitarre di “The ministry of Defence”, la splendida “A line in the sand” e il gran ritmo di “The wheel”, forse il brano migliore dell’album.

Inutile dire che anche i testi sono all’altezza della musica, e toccano tematiche sociali e politiche di grande impatto, con un taglio critico e accusatorio. L’ispirazione per i brani è conseguente ad un viaggio dell’autrice in Kosovo e Afghanistan, mentre il titolo dell’album si riferisce ad un contestato progetto di demolizione e riqualificazione edilizia a Washington. Non ho però minimamente le competenze per dire nulla di più su questo album, e non sarei in grado di dire granché di originale al riguardo. Lascio questo lavoro a chi è veramente competente per farlo. Mi limito a dire che è un disco che adoro, come tanti altri di PJ Harvey, e che mantiene una coerenza di fondo e di sound con i lavori precedenti davvero da ammirare. Ce ne fossero altri di artisti del genere.

Ma passiamo a qualche video, iniziando con il bel trailer:

Ed ecco infine una delle mie canzoni preferite, “The wheel”: