La grande migrazione delle anguille dal Mar dei Sargassi

La grande migrazione delle anguille dal Mar dei Sargassi è stata una delle scoperte più sorprendenti che mi sia capitato di fare di recente. Una storia piena di fascino, che merita assolutamente di essere raccontata.

Tutto iniziò a seguito della passione di mio figlio per i libri di animali. Mi chiede di leggerglieli in maniera approfondita per conoscere nome esatto e tutte le caratteristiche delle varie specie.

In uno di questi libri ho scoperto di avere fino ad ora completamente sottovalutato le anguille, alle quali invece dopo questa scoperta va tutta la mia ammirazione. Nella mia crassa ignoranza, queste erano le uniche informazioni che avevo su questi pesci: vivono nei fiumi o nella foce degli stessi, e sono buone sia arrosto che in umido.

Le anguille invece sono protagoniste di una migrazione stupefacente, nel corso della quale coprono distanze enormi, e che per gran parte resta ancora avvolta nel mistero. Siamo nel 2017, convinti di sapere tutto e di essere pronti a conquistare lo spazio. Per fortuna invece bastano le comuni anguille, che tutti crediamo di conoscere, per riportarci subito con i piedi per terra. E meno male!

la grande migrazione delle anguille dal mar dei sargassi

Il Mar dei Sargassi

Tanto per cominciare, sembrerebbe che tutte le anguille, che si possono pescare in America, in Europa o in Africa, nascano esclusivamente nel Mar dei Sargassi. E già questo basterebbe a farmi appassionare a questa storia. Dove accidenti è il Mar dei Sargassi? Un nome che evoca storie di pirati e bucanieri…

Ho fatto allora qualche ricerca sul web, e ho scoperto che il Mar dei Sargassi si trova nell’Atlantico nord occidentale, più o meno tra le Grandi Antille, le Azzorre e le Bermuda.

E qui iniziano le stranezze. Si tratta di un mare, ma a differenza di tutti gli altri non è circondato da nessuna terra. In realtà è una parte dell’Oceano, e di conseguenza ha dei confini mobili e mutevoli, impossibili da individuare con esattezza. In buona sostanza, è definito dalle correnti che lo circondano, quali la Corrente del Golfo, la Corrente Nord Equatoriale e tante altre. Pur trovandosi in mezzo a tutte queste correnti, e anzi proprio a causa di queste, è un mare generalmente piuttosto tranquillo.

la grande migrazione delle anguille dal mar dei sargassi

Le sue acque superficiali sono più calde e meno dense di quelle in profondità, dando origine a due strati d’acqua che favoriscono l’esistenza di un ecosistema unico al mondo, quello appunto dei sargassi. I sargassi sono grovigli di alghe marine fluttuanti sotto il pelo dell’acqua, che forniscono l’habitat ideale a numerose piccole specie acquatiche.

la grande migrazione delle anguille dal mar dei sargassi

La grande migrazione delle anguille dal Mar dei Sargassi

Le anguille sono molto comuni nei nostri fiumi e mari, eppure è possibile trovare esclusivamente esemplari adulti. Dove sono le forme larvali, o le anguille appena nate?

Fin dall’antichità questo fatto ha sempre sconcertato gli scienziati, tanto che in mancanza di spiegazioni più soddisfacenti Aristotele riteneva che esse avessero origine direttamente dal fango. Sembra incredibile, ma soltanto poco più di cento anni fa si è riusciti, e solo in parte, a venire a capo di questo mistero. Due naturalisti italiani, Grassi e Calandruccio, riuscirono ad allevare alcuni esemplari di un piccolo pesce trasparente chiamato Leptocefalo. Man mano che crescevano, i leptocefali si trasformavano in ceche, ovvero le giovani anguille. Arrivati a questo punto, si erano scoperte le larve delle anguille, ma nel punto di cattura non era possibile trovare alcun esemplare adulto. Il mistero continuava ad infittirsi.

la grande migrazione delle anguille dal mar dei sargassi

Soltanto nel 1904 l’oceanografo danese Schmidt scoprì, proprio nel Mar dei Sargassi, una elevatissima presenza delle larve delle anguille. Il Mar dei Sargassi è infatti l’unico punto al mondo nel quale le anguille si riproducono. A questo punto inizia la grande migrazione delle anguille dal Mar dei Sargassi.

I leptocefali, sospinti dalle correnti dell’Atlantico, sono protagonisti di un incredibile viaggio della durata di circa tre anni nel corso dei quali percorrono 6.000 o 7.000 km per arrivare in Europa, ormai allo stadio di ceche. I maschi restano nelle acque salmastre della foce dei fiumi, le femmine invece si sospingono all’interno risalendo i fiumi controcorrente e arrivando anche a colonizzare specchi d’acqua che non hanno alcun contatto con il mare, quali stagni o pozze d’acqua, strisciando se serve nell’erba bagnata e nelle falde sotterranee.

photo: Heather Perry, National Geographic

Qui vivono in media per 15-20 anni, poi quando l’impulso alla riproduzione prevale, ripercorrono i fiumi fino al mare e iniziano una nuova, incredibile migrazione per tornare al Mar dei Sargassi. Altra migrazione in senso inverso, un viaggio di migliaia di chilometri nel quale sono esposte ad innumerevoli pericoli. Per affrontarlo, il loro corpo si adatta alle profondità oceaniche, gli occhi si sviluppano e verosimilmente confidano esclusivamente nelle proprie riserve di grasso per arrivare senza mai nutrirsi a destinazione. Si tratta in questo caso di una migrazione senza ritorno, in quanto esse muoiono dopo essersi riprodotte.

Che cosa le spinga a migrare e in che modo siano in grado di orientarsi in maniera tanto stupefacente in quella che è la più grande migrazione marina al mondo, non è dato saperlo.

Se questa non vi sembra una storia affascinante…

Per concludere, un interessante video del Monterey Bay Aquarium che mostra l’impoverimento dell’habitat del Mar dei Sargassi a causa, tanto per cambiare, dell’intervento dell’uomo. Avevate dubbi?

Fonti consultate per questo articolo:

Wikipedia: Anguilla anguilla;  Biologiamarina.eu: Le migrazioni oceaniche delle anguille; Il giornale dei marinai: Mar dei Sargassi, uno strano mare tranquillo; Wikipedia: Mar dei Sargassi

Lost highway di Hank Williams, capolavoro del country

Ma quanto è bella Lost Highway di Hank Williams? Potrei ascoltarla all’infinito senza mai stufarmi. Per chi non lo conoscesse, Hank Williams è stato uno dei più influenti cantanti del ventesimo secolo, leggenda assoluta del country e dell’honky tonk.

E’ purtroppo morto giovanissimo, a soli ventinove anni. Lo ritrovarono sul sedile posteriore di una Cadillac azzurra il primo gennaio del 1953, ucciso da un infarto o da una overdose di morfina. Si stava facendo portare in auto ad un concerto in Ohio, dopo che il suo volo fu annullato per una bufera di neve. Prima che l’autista si accorgesse di trasportare un cadavere, trascorse una infinità. Ma si sa… le leggende della musica non muoiono come i comuni mortali.

Lost Highway

Da anni Hank Williams aveva problemi di dipendenza da alcol e oppiacei, che assumeva anche per i dolori causati dalla spina bifida che lo affliggeva dalla nascita. Inaffidabile, spesso sbronzo o strafatto, la sua band lo abbandonò più di una volta, perse un sacco di soldi per contratti annullati da produttori esasperati e molti suoi concerti furono annullati. Inutile dire che anche il suo matrimonio andò in pezzi.

Famosa fu l’ammonizione che ricevette da Roy Arcuff, altro cantante country:

Tu hai una voce da un milione di dollari, ragazzo, ma un cervello da dieci centesimi.

Nonostante tutto ciò, pur nei suoi pochi anni di attività lasciò un segno indelebile nella musica americana.  Spigoloso e ossuto, era un cowboy dalla faccia pallida cresciuto in Alabama negli anni della Grande Depressione. Con un padre malato e assente e una madre costretta a turni massacranti in ospedale per sbarcare il lunario, non ebbe di certo una infanzia facile. Ma imparò a suonare la chitarra, e la sua voce unica, unita ad una intensità interpretativa mai vista prima di allora, gli consentirono di piazzare dodici brani al primo posto nelle classifiche musicali americane. La sua carriera fu sfolgorante e divenne presto una celebrità.

Lost Highway di Hank Williams

Cosa ancora più importante, lasciò una gigantesca eredità a quanti vennero dopo di lui. Tantissimi artisti gli sono debitori,  primo fra tutti Bob Dylan. In Chronicles – Volume 1 scrisse di Hank Williams:

“Il suono della sua voce mi trapassò come una verga carica di elettricità. Era come se avesse trovato il modo di sconfiggere la forza di gravità. […] Una voce bella come le sirene delle navi”

“Quando sento cantare Hank, ogni movimento cessa di esistere. Il più lieve sussurro sembra un sacrilegio.”

Lost Highway di Hank Williams è una celebre canzone country che in realtà non è stata scritta da Hank Williams, come tutti pensano. La scrisse nel 1948 Leon Payne, un cantautore country cieco, che la registrò nello stesso anno con l’etichetta Bullet di Nashville. Eccolo qui nella foto, primo da sinistra, insieme ad Hank Williams.

Leon Payne e Hank Williams

Hank Williams la scoprì mentre era in tour in Louisiana e Texas e se ne innamorò. Con la sua voce unica, ne fece una propria, magistrale versione. Quella che io adoro.

Lost Highway di Hank Williams (scritta da Leon Payne)

I’m a rollin stone all alone and lost
For a life of sin I have paid the cost
When I pass by all the people say
Just another guy on the lost highway.

Just a deck of cards and a jug of wine
And a womans lies makes a life like mine
Oh the day we met, I went astray
I started rolling down that lost highway.

I was just a lad, nearly 22
Neither good nor bad, just a kid like you
And now I’m lost, too late to pray
Lord I take a cost, oh the lost highway.

Now boys don’t start to ramblin’ round
On this road of sin are you sorrow bound
Take my advice or you’ll curse the day
You started rollin’ down that lost highway.

Fonti consultate per Lost Highway di Hank Williams:

Wikipedia: Lost Highway (Leon Payne song); A.V. Club: Rolling down the “Lost Highway” with Hank, Billy Bob and Jeff Buckley; OndaRock: The lost notebooks of Hank Williams; Fuori catalogo: 85 anni fa, Hank Williams; Wikipedia: Hank Williams; OndaRock: Hank Williams, le strade perdute del desiderio

Alcune foto di animali nello zoo di Vienna

Lo zoo di Vienna (Tiergarten Schonbrunn) è uno dei più belli che mi sia capitato di vedere. Lo abbiamo visitato lo scorso settembre e ne ho approfittato per scattare qualche foto. Al volo come sempre. Fotografare in pochi secondi mentre si rincorre e controlla il proprio figlio cinquenne che corre entusiasta da un animale all’altro non è proprio quello che viene raccomandato nei principali manuali di fotografia.

Anche avere a disposizione la Fuji XT-1 con il solo 18-55 f/2.8-4, ovviamente senza treppiede perchè non ci sarebbe il tempo di posizionarlo, non è proprio il massimo per fotografare animali in uno zoo. Ho pertanto dovuto croppare anche parecchio le immagini, per avere un minimo di effetto di teleobiettivo, con risultati tra lo scarso e il modesto. Ma gli animali sono sempre belli a prescindere, per cui qualche foto selezionata la voglio qui presentare:

Zoo di Vienna
Zoo di Vienna
Zoo di Vienna
Zoo di Vienna
Zoo di Vienna
Zoo di Vienna
Zoo di Vienna

tutte le foto © germinazioni

Le fotografie di Dmitri Ermakov, una finestra sul Caucaso del 1800

Ho scoperto le fotografie di Dmitri Ermakov mentre ricercavo sul web informazioni su Vittorio Sella, strepitoso fotografo di montagna di cui ho già parlato in questo articolo. Entrambi pionieri della fotografia,  operarono nel Caucaso nella seconda metà del 1800, lasciandoci in eredità immagini memorabili e dall’enorme valore antropografico.

Photo: Dmitri Ermakov

La storia di Dmitri Ermakov

Nato nel 1846 a Tiflis, l’attuale Tbilisi in Georgia, dall’architetto italiano Luigi Caribaggio, prese poi il cognome del secondo marito della madre, una pianista di origine austriaca. Iniziò a fotografare a vent’anni durante l’acccademia militare e aprí un proprio studio fotografico a Tiflis. Soprattutto viaggió a lungo nel Caucaso, in Asia centrale e in Anatolia, documentando la vita delle diverse popolazioni della regione e immortalando le fortezze, le cittadine, i monumenti archeologici e i monasteri della regione. Eseguí anche molti ritratti di nobili, funzionari, religiosi e innumerevoli altre persone.

Photo: Dmitri Ermakov

Inutile dire che la tecnologia fotografica dell’epoca era ancora pionieristica, pertanto le fotografie di Dmitri Ermakov vennero realizzate con una grossa e pesante fotocamera che utilizzava lastre da 50×60 cm. Il trasporto di tale attrezzatura rendeva necessarie spedizioni con carovane di muli e campi tendati, con tutte le difficoltà che si possono soltanto immaginare durante i viaggi in queste zone remote e insidiose.

Photo: Dmitri Ermakov

Un talento subito riconosciuto

Le fotografie di Dmitri Ermakov comparvero ben presto nei giornali della Georgia e della Russia, ma la sua popolarità arrivó anche in Europa. A soli ventotto anni le sue opere vennero esposte alla prestigiosa mostra della Société française de photographie a Parigi, la più rinomata associazione fotografica dell’epoca, riscuotendo unanimi apprezzamenti.

Il successo fu tale che lo Sciá di Persia lo assunse come fotografo personale, e a Dmitri Ermakov vennero affidati numerosi lavori, anche discretamente remunerati. Fondamentale fu soprattutto l’incarico di documentazione fotografica commisionatogli dalla contessa Praskovya Uvarova della Società Archeologica di Mosca. Autentica pioniera della esplorazione archeologica del Caucaso, fece pubblicare a partire dal 1890 numerose fotografie di Dmitri Ermakov in una serie di cataloghi archeologici del Caucaso.

Photo: Dmitri Ermakov

Il triste destino attuale delle fotografie di Dmitri Ermakov

Alcune delle fotografie di Dmitri Ermakov, di enorme importanza culturale, etnografica e archeologica,  sono attualmente esposte nel Museo nazionale della Georgia, nonché nei musei di Mosca e San Pietroburgo. Si tratta tuttavia di un fotografo oggi pressoché sconosciuto, del quale non é stata realizzata alcuna mostra di spessore, libro o catalogo, tant’è che sono note soltanto di un centinaio di foto, su un archivio di oltre ventimila immagini. Quale ingiustizia!

Il Museo Nazionale della Georgia per carenza di fondi non ha purtroppo potuto restaurare e conservare adeguatamente le lastre originali, e parte delle fotografie di Dmitri Ermakov sono state svelate soltanto per vie molto contorte. In parte sono state scansionate da un pronipote di Ermakov, fotografo egli stesso a Mosca, e mostrate nel suo blog (se volete darci un’occhiata, tenete però presente che è scritto in cirillico).

Photo: Dmitri Ermakov

Molte altre immagini invece si devono a Rolf Gross, che insegnò fisica a Tbilisi negli anni’80 e divenne amico del direttore del museo. Questi gli consentì di prendere alcune stampe scartate da pubblicazioni di varia natura, con la promessa di non divulgarle in quanto sarebbe stato lo stesso museo a far conoscere le opere di Ermakov in maniera completa e strutturata. Cosa che però non è mai avvenuta, spingendo a quel punto Rolf Gross a pubblicarne alcune su un proprio sito, al fine di dar loro almeno una piccola parte della notorietà che esse meritano. Con la speranza che prima o poi la Georgia faccia conoscere al mondo il prezioso lavoro di questo grandissimo fotografo, ritratto nella immagine seguente:

Ed ecco alcune altre immagini memorabili, che ci catapultano indietro di duecento anni nella vita quotidiana del Caucaso, dell’Asia centrale e della Persia. Una galleria di personaggi straordinari.

Per cominciare, un arrotino e un suo cliente:

Un pescivendolo affetta un pesce:

Photo: Dmitri Ermakov

Un derviscio persiano (!):

Photo: Dmitri Ermakov

Carovana di cammelli giunti a Tiflis dalla Persia:

Zeli-Sultan, figlio dello Scià di Persia, per qualche misterioso motivo con indosso una uniforme austro-ungarica:

Photo by Dmitri Ermakov

Venditori di colbacchi:

Photo: Dmitri Ermakov

Massimo Popolizio legge Pastorale americana di Philip Roth

Due mesi fa ho deciso di provare Audible, la piattaforma di Amazon attraverso la quale é possibile accedere ad un ricco catalogo di audiolibri. Con i libri letti ad alta voce non ho avuto in passato una esperienza particolarmente soddisfacente. A quel tempo li ascoltavo sotto forma di podcast, a puntate. Sarà stata l’opera in questione. Sarà stata la scarsa qualità della lettura. Sarò stato io, non ancora pronto. Non lo so, ma non sono riuscito ad appassionarmi.

Audible

Il primo mese di utilizzo di Audible era però gratuito e quindi.. perchè non dare agli audiolibri un’altra possibilità?

Trovandomi a dover fare, in media tre volte alla settimana, tre ore di auto per andare e tornare da lavoro, qualsiasi sistema di intrattenimento è il benvenuto per contrastare la noia e la stanchezza.

Pastorale americana di Philip Roth

Per testare la bontà degli audiolibri di Audible, ho deciso di fare subito la prova più difficile. O la va o la spacca. Iniziare da Pastorale americana di Philip Roth. Se l’audiolibro fosse stato in grado di affrontare questo gigante della letteratura, allora tutto sarebbe stato possibile.

Pastorale americana

Per chi non lo conoscesse, “Pastorale americana” è stato scritto nel 1997 e ha vinto il Pulitzer per la letteratura nell’anno seguente. Autentico capolavoro, ho avuto la fortuna di leggerlo una decina di anni fa. Sono stati i miei genitori a consigliarmi questo libro, e li ringrazio di cuore. Ancora ricordo quando l’ho letto… d’estate, nell’amaca sotto i pini, nella casa di Solanas, con il sole del mattino che iniziava a filtrare tra gli alberi e nella quiete del pomeriggio, a digerire pastasciutte e angurie.

Non sono tanti i libri dei quali ci si ricorda quando li si ha letti. Soltanto quelli più importanti hanno questo potere.

Un libro talmente ben costruito e ben scritto da lasciare a bocca aperta, per la potenza della narrazione e della trama. Roth è uno scrittore con un immenso talento, dallo stile cristallino nella costruzione delle frasi e per la scelta esatta, millimetrica, delle parole utilizzate. E per la capacità di penetrare nel più profondo dell’animo umano. Senza nessuno sconto e nessuna pietà.

Un libro che cancella qualsiasi speranza di salvezza. Sempre attualissimo, tra l’altro. Per come l’ho percepita io, con tutti i limiti delle mie scarse capacità di critica letteraria, è un’opera che trasmette fondamentalmente tre messaggi.

La assoluta impossibilità di comprensione del mondo.

L’annientamento della falsa, utopistica e pretestuosa convinzione di poter influire sulla nostra vita o su quella delle persone care.

La agghiacciante e sconcertante casualità degli eventi.

L’interpretazione magistrale di Massimo Popolizio

 Riuscire a traslare in una narrazione orale un’opera del genere deve essere stata impresa da far tremare i polsi. Ma Massimo Popolizio è riuscito a leggere il testo interpretandolo alla perfezione e arricchendolo con una abilità da artista di primo livello e tutta l’esperienza derivante dal teatro.

Ascoltare un audiolibro in auto per forza di cose richiede uno sforzo di concentrazione ancora maggiore rispetto a quello che sarebbe sufficiente in altri contesti, dal momento che la guida occupa una parte delle attività del cervello. E per quanto la strada che normalmente percorro sia priva di semafori e quasi deserta dal punto di vista del traffico, non è certamente possibile inserire il pilota automatico e staccare il cervello.

Massimo Popolizio legge Pastorale americana

Nonostante tutti questi limiti, l’interpretazione di Popolizio, con il variare del tono e del calore della voce, il magistrale utilizzo delle pause e di tutte le sue abilità vocali, ha reso l’ascolto di Pastorale americana una sorta di droga. La trama di Roth obbliga in un certo senso ad andare avanti e a voler scoprire sempre di più, ma una interpretazione meno che superlativa sarebbe stata in grado di rovinare questo capolavoro della letteratura del secolo scorso.

Pastorale americana di Philip Roth, nella edizione Emons audiolibri

L’edizione di Pastorale americana della Emons è pertanto qualcosa che raccomando ad occhi chiusi a tutti quelli che vogliano ascoltare un audiolibro di altissima qualità. Un audiolibro nel quale l’eccellenza della scrittura di Roth si somma alla indimenticabile interpretazione di Massimo Popolizio per dar vita ad un capolavoro la cui grandezza è maggiore della semplice somma delle parti.

Una mattina al Naturhistorisches Museum di Vienna

Lo scorso mese di settembre abbiamo dedicato una intera mattina a visitare il Naturhistorisches Museum di Vienna, uno dei più grandi musei di scienze naturali del mondo.

Con una collezione di oltre venti milioni di reperti, non c’è il pericolo di annoiarsi. Sempre che si sia appassionati di storia naturale e curiosi per natura. Se non lo siete, avete sbagliato blog. Come non meravigliarsi di fronte a tutta la biodiversità e alle varietà di forme, colori, strutture e  stranezze esistenti in natura?

Il percorso di visita inizia con parecchie sale stracolme di minerali, gemme e cristalli giganti da record. Non ne capisco quasi nulla di geologia, ma anche ad uno sguardo veloce c’è di che restare a bocca aperta:

Si prosegue con la più grande collezione al mondo di meteoriti. Assolutamente affascinanti e di aspetto alieno anche alla vista del profano.

Dopo i meteoriti, è il turno di altri reperti che mi affascinano tantissimo: i fossili. Ne ho parlato anche in un altro articolo, quello dedicato a Mary Anning, la bambina cacciatrice di fossili, ma in queste sale c’è di che sbizzarrirsi:

Si entra quindi in una saletta buia, dove è esposto uno dei reperti archeologici più famosi del mondo: la Venere di Willendorf. Si tratta di una affascinante statuetta, alta una decina di centimetri, simboleggiante verosimilmente la Dea Madre, la Madre Terra o la fecondità. E’ una delle più famose statuette del Paleolitico, e si stima sia stata realizzata tra i 25.000 e i 28.000 anni fa.

Pensare al fatto che questi nostri lontanissimi antenati fossero capaci, oltre che di sopravvivere in condizioni difficilissime, anche di esprimere in maniera tanto raffinata le proprie qualità artistiche e spirituali non può che lasciarmi profondamente ammirato per il loro valore.

Come se non bastasse, accanto alla Venere di Willendorf è anche esposta un’altra statuetta, ancora più piccola e antica: la Venere di Galgenberg, risalente a 36.000 (!) anni fa.

Il percorso all’interno del Naturhistorisches Museum continua in infinite sale strapiene di animali impagliati di ogni tipo, e per i bambini è una esperienza da non perdere. Soprattutto la sala dei dinosauri, con scheletri enormi e un allosauro animato a grandezza naturale davanti al quale nostro figlio è restato incantato per una buona mezz’ora.

Dopo qualche altro milione di insetti, tigri, orsi, balene, uccelli grandi e piccoli, la visita si può concludere, con la sensazione di avere visto (e capito) una parte infinitesimale di quello che questo bellissimo museo può offrire. La cosa più importante che mi è rimasta dal Naturhistorisches Museum di Vienna è senza dubbio la consapevolezza della enorme e straordinaria biodiversità della vita sulla Terra.

Un patrimonio di inestimabile valore che dobbiamo a tutti i costi fare il possibile per preservare. Anche perché la storia della Terra ci insegna che oltre il 99% delle specie animali comparse sul nostro pianeta si sono ormai estinte, per una causa o per l’altra, e la razza umana non ha nessun motivo per pensare di essere al riparo da questa eventualità.

Tutte le foto le ho scattate con la fida Fuji XT-1, in condizioni non certo ottimali: senza treppiede e di fretta, perciò la qualità è quella che è. Ma per farsi un’idea sono sufficienti. Per chi volesse invece approfondire, ecco un bel filmato disponibile nel sito ufficiale del Naturhistorisches Museum di Vienna:

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L’età dell’innocenza del surf, nelle foto di Leroy Grannis

Ho acquistato questa mattina alla Feltrinelli “Surf photography” di Leroy Grannis, edito da Taschen books. Per nove euro e novantanove centesimi non potevo di certo farmi scappare un libro cartonato di oltre 150 pagine con alcune delle più belle foto di surf di sempre.

Leroy Grannis, per chi non lo sapesse, è considerato il più importante fotografo di surf degli anni ’60. E ancora, sempre per chi non lo sapesse, gli anni’60 sono stati l’epoca d’oro del surf. E non solo del surf. Se penso che in quelli stessi anni c’erano sulla scena, all’apice del loro massimo furore creativo, Bob Dylan, i Beatles, i Beach Boys, Jimi Hendrix e tantissimi altri….

Roba da uscire fuori di testa. Meglio non pensarci.

Leroy Grannis ha iniziato a praticare il surf da adolescente, ma soltanto dopo la quarantina ha deciso di mettersi a fotografarlo. Pare su consiglio di qualcuno che lo convinse a cercarsi un hobby. Ed eccolo qua, a scattare in equilibrio su una tavola da surf…. che tempi pionieristici!

Le foto di surf di Leroy Grannis trasmettono subito tutta l’innocenza, l’ingenuità ma soprattutto la genuinità dell’età dell’oro del surf. Ancora apparentemente incontaminato dagli interessi economici degli sponsor e dalla competizione sportiva esasperata.

Queste foto non possono che farmi tornare alla mente le meravigliose atmosfere di alcune delle scene più belle di uno dei mie film preferiti. “Big Wednesday” (1978) di John Milius, tradotto in italiano come “Un mercoledì da leoni”. Uno dei più bei film sull’amicizia, sulla gioventù e sulla spensieratezza. Matt Johnson, Jack Barlowe e Leroy “spaccatutto” Smith. Tre personaggi indimenticabili, insieme a Peggy Gordon e al burbero Bear.

Un film che mi ha letteralmente cambiato la vita e il modo di pensare, insieme ad un altro capolavoro anche questo guarda caso ambientato nel mondo del surf: “Point break” (1991) di Kathryn Bigelow.

Che poi alla fine io il surf non l’ho mai praticato. O per lo meno non ancora. Ma mi sarebbe sempre piaciuto. Per un anno circa ho fatto windsurf, e con grande passione e divertimento. Ricordo soprattutto una estate, nella quale, per via di altre questioni, ho avuto qualche settimana da dedicare alla tavola a vela. Ricordo i primi tentativi al mare, a sollevare cento volte la vela dall’acqua e poi togliermi la muta nel maestrale freddo dell’inverno, con le braccia stanche e gonfie dal gran sforzo. Ricordo poi l’arsura e la sete al ritorno in spiaggia, dopo un paio d’ore sopra la RRD Evolution 360, e l’inebriante odore della salsedine sul neoprene della muta. Che tempi! E che spensieratezza in quegli anni!

Queste foto mi fanno tornare alla mente quelle sensazioni, quel senso di libertà e la illusoria promessa che tutto fosse possibile. Per questo motivo mi sono tanto care.