Days of Heaven

Days of Heaven è il primo film di Terrence Malick che ho visto, e l’ho subito adorato. La fotografia (premio Oscar a Nestor Almendros), i paesaggi, i silenzi, la tecnica di ripresa, le musiche di Morricone, la tragedia biblica, i volti dei protagonisti (Sam Shepard e Brooke Adams sopra tutti), il racconto fuori campo della ragazzina, le foto d’epoca, la povertà. Una meraviglia. L’ho rivisto qualche giorno fa (“I giorni del cielo” su Prime Video) e non me ne sono pentito. Mi è anzi venuta la voglia di rivedere anche Song to song, che mi aveva stregato in un hotel ad Ancona lo scorso anno, e di completare quanto prima il resto della filmografia di questo regista.

Siddharta di Hesse

È da me che voglio imparare, di me stesso voglio essere il discepolo.

Quando lessi questo libro, forse più di vent’anni fa, ne rimasi affascinato. Sulla scia degli approfondimenti sul buddismo di questo periodo, l’ho voluto riprendere in mano, con la speranza di poterne ora coglierne significati più profondi grazie ad una maggiore maturità. A questo punto i casi sono due: o tutta questa presunta maggiore maturità non c’è stata, oppure la prima volta che lo lessi ero più ingenuo di ora. Probabile che siano vere entrambe le ipotesi, fatto sta che stavolta mi è piaciuto meno di quanto speravo.

Le parole non rendono un buon servigio al significato segreto, tutto risulta sempre un po’ diverso quando lo si esprime a parole, un po’ falsato, un po’ folle, sì, e anche questo è assai bene e mi piace moltissimo, anche con questo sono perfettamente d’accordo, che ciò che è tesoro e saggezza d’un uomo suoni sempre un po’ folle alle orecchie altrui».

Tutto iniziò con una enigmatica storia cinese

Questo è un classico post di divagazione e collegamenti affascinanti, di quelli che mi piacciono perchè da uno spunto conducono ad altro con un salutare ma guarda un po’ di sorpresa. Il fatto di continuare ad appassionarmi a queste cose mi sembra di buon auspicio per il futuro. Ma partiamo dall’inizio, quando sono rimasto colpito da questa storiella misteriosa:

Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. «Ho bisogno di altri cinque anni» disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.

Italo Calvino – Lezioni americane

Quale sia la morale di questa storia, in tutta sincerità, non l’ho capito. Sicuramente bisognerebbe conoscere il contesto per capirci di più. Nella mia ignoranza ho pensato per prime a queste due ipotesi.

  1. Chuang-Tzu era un imbroglione e avrebbe potuto disegnare il granchio già da subito, e ha invece approfittato della generosità del re per vivere per dieci anni in una villa con dodici servitori? Morale: furbizia.
  2. Oppure – anche se la storiella questo lo omette – i dieci anni gli sono serviti per perfezionare la sua arte o trovare la concentrazione per fare il disegno perfetto? Morale: insegnamento zen dal misterioso Oriente.

Ho cercato allora qualche notizia su internet per capire chi fosse questo Chuang-Tzu (per la precisione 莊子 e noto anche come Zhuāngzǐ) e già solo dalla relativa pagina di Wikipedia ho trovato un sacco di cose interessanti, oltre ad avere scoperto di essere ancora più ignorante di quello che immaginavo, visto che non si tratta di un personaggio qualunque ma niente di meno che una figura chiave del taoismo.

Vissuto probabilmente nel terzo-quarto secolo a.C. e quindi quasi contemporaneo di Aristotele, è autore di un’opera in 33 capitoli che porta il suo nome.

Il carattere cinese dào (o tao) che significa “la Via corretta”

Queste le parti più interessanti, sempre da Wikipedia:

“In generale, la filosofia di Zhuangzi è basata sul concetto della limitatezza della vita in confronto all’infinitezza della conoscenza. Usare il limitato per raggiungere l’illimitato, egli affermava, era impossibile. Il nostro linguaggio, cognizione, percezione, sono una prospettiva personale delle cose, per questo bisogna esitare prima di definire qualche conclusione come universalmente vera e valida.”

“All’origine dei mali dell’uomo risiederebbe il fatto che ciascuno scelga una posizione e rifiuti di vedere il contrario, essendo invece la realtà solo un’alternanza di contrari. Superare ogni personalismo ed utilizzare l’empatia per mettersi nei panni degli altri sarebbe dunque la sola salvezza dell’uomo illuminato.”

Una maggiore comprensione della storiella di prima si può trovare in quest’altra storia, e nella spiegazione che ne viene data:

“Un sovrano aveva commissionato all’intagliatore Qing un piano in legno per campane entro quindici giorni. I primi giorni Qing sembra essersi dimenticato del tutto del compito, si dedica ad altre cose, digiuna, non si preoccupa del tempo che passa. Durante una passeggiata però ecco l’illuminazione: alla vista di un albero particolare Qing esclama di aver trovato il legno esatto e, tornato nel suo studio, conclude il suo compito in poco tempo. Il sovrano rimane esterrefatto dalla bellezza del supporto.”

Questa storia esemplifica due concetti: wang (oblio) e shen (spirito). Qing è riuscito nel suo lavoro perché la sua mente ha dimenticato il lavoro stesso. L’oblio permette di imparare, perché se uno pensa troppo alle regole o al risultato finale, non riesce nel suo intento. Le regole comunque non si dimenticano, sono in un “serbatoio” a cui possiamo sempre attingere, uno spirito che si risveglia nel momento propizio.

Per farla breve, valeva sicuramente la pena di approfondire e ho allora ordinato questo libro. La copertina da sola valeva l’acquisto, bellissima.

Anatomia dell’irrequietezza

L’ho riletto forse per la terza o quarta volta. Stavolta in formato ebook su Kindle, ma il confronto con il piacere fisico della lettura che deriva da ogni libro della Biblioteca Adelphi è stato impietoso. Erano forse quindici anni che non lo rileggevo, e per fortuna l’ho continuato a trovare un libro scritto con uno stile piacevole, elegante, seppure il testo come è ovvio per la sua stessa genesi resti una raccolta frammentaria e variegata, con alcune parti noiose ma leggibili e altre ormai famose, come la lettera al suo editore Tom Maschler, dove è contenuta una delle frasi più iconiche di Chatwin:

Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?

Oppure questa, che mi affascina di più:

L’uomo, umanizzandosi, aveva acquisito insieme alle gambe diritte e al passo aitante un istinto migratorio, l’impulso a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni […] ciò spiegherebbe perché […] nell’intento di ristabilire l’armonia dello stato primigenio, tutti i grandi maestri – Buddha, Lao-tse, san Francesco – abbiano messo al centro del loro messaggio il pellegrinaggio perpetuo, e raccomandato ai loro discepoli, letteralmente, di seguire la Via.

Altre ancora evocative di tempi passati nei quali si facevano le cose con più semplicità e ci si metteva meno problemi a programmare e “organizzarsi”, come questo:

Nel 1949 i tempi duri erano finiti, e una sera mio padre tornò a casa dal lavoro pilotando orgogliosamente un’automobile nuova. L’indomani portò me e mio fratello a fare un giro. Sul ciglio di una scarpata si fermò, additò una fila di monti grigi a ovest e disse: «Andiamo nel Galles». La notte dormimmo in auto, nel Radnorshire, al suono di un torrente montano. Allo spuntar del sole ci trovammo immersi nella rugiada e circondati dalle pecore.