Come una apparizione, lo slargo del Rio Quirra compare sulla destra in una curva sulla 125, subito dopo Santorgiu. E’ da otto anni che faccio questa strada, almeno tre volte alla settimana. Quasi sempre l’ho visto asciutto: pietre grigie al sole, con le montagne sullo sfondo. Rare volte l’ho visto scorrere nel pieno del suo splendore.
Tante volte avrei voluto fermarmi a scattare una foto. C’è una piazzola sterrata e larga, appena una decina di metri rispetto alla visuale migliore. Nessuna difficoltà a parcheggiare l’auto. Il telefono ce l’ho sempre con me, quindi nemmeno questa può essere una motivazione valida.
Possibile allora che non mi sia mai fermato? In OTTO anni? Sarebbero bastati cinque minuti, ad essere di manica larga. Non ho nessuno che mi insegue a lavoro, se arrivo con qualche minuto di ritardo. Tecnicamente anzi non posso nemmeno essere in ritardo, visto che non ho orari prestabiliti.
Perché allora è successa una cosa del genere? Non c’è nessuna motivazione reale, tranne quella di essere imprigionati nella corsa del criceto. Sempre avanti e indietro, a ripercorrere la stessa strada. Avanti e indietro. Sempre di corsa. Nessuna deviazione. Nessuna scoperta. Una linea precisa e sottilissima nella mappa che collega la mia casa al luogo di lavoro. Tutto il resto della mappa rimane inesplorato, non percorso. Terra ignota.
Quando oggi – chissà perchè – ho deciso di fermarmi, ho provato una sorta di liberazione. Mi sembrava quasi di avere fatto qualcosa di rivoluzionario. Qualcosa da ripetere. Uscire dagli schemi. Uscire dalla routine. Vivere. Anche piccole soddisfazioni come queste.
Che poi, oh….. la foto non è niente di che. Ma non è questo il punto.
E’ proprio vero che le catene peggiori sono quelle che ci costruiamo con le nostre mani, e che la vera prigione è nella nostra testa.