Dopo tanti anni che mi ripromettevo di farlo, il giorno in cui sono tornato al pozzo sacro di Santa Cristina sono anche finalmente riuscito a visitare la casa natale di Antonio Gramsci a Ghilarza.
Era prima di pranzo, ed ero completamente da solo. Perfetto. Al primo piano si trova la stanza da letto e un paio di piccole camere con reperti storici, fotografie e scritti, secondo un percorso cronologico che ricostruisce le tappe fondamentali di questo nostro straordinario conterraneo.
La riproduzione di una delle sue frasi più belle e significative è stata opportunamente riportata su un pannello di plexiglass:
La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.
Antonio Gramsci
C’erano poi le riproduzioni (?) di alcune delle opere più importanti di Gramsci, come i Quaderni dal carcere, le riviste torinesi e molto altro. Tornato al piano terra speravo di trovare una ricca libreria e biblioteca dove acquistare qualche libro di Gramsci (mio padre in realtà ce li ha già tutti, ma volevo qualcosa anche di mio), invece sono rimasto piuttosto deluso. Pochissimi libri in vendita, e male organizzati.
Era forse la prima volta che visitavo la casa di uno scrittore, o almeno così mi sembra di ricordare. Che significato può avere visitare la casa di un intellettuale, visto che il suo lascito è rappresentato dalle opere che ha scritto e dalla vita che ha vissuto, e non certo dai suoi oggetti materiali? Lo scopo dovrebbe appunto essere quello di rappresentare un centro culturale che ne tiene viva la memoria e la trasmette alle nuove generazioni. Da questo punto di vista a mio parere la casa di Gramsci non assolve appieno a quella che dovrebbe essere la sua funzione principale. E’ anche vero che in tempi come questi attuali va già bene così, e con i fondi sempre più scarsi destinati alla cultura è un piccolo miracolo che questa casa museo resista ancora. Gli abitanti di Ghilarza dovrebbero essere orgogliosi di questo piccolo tesoro, con la speranza di riuscire a valorizzarlo ancora meglio.
Sempre nell’andata a Sassari per lavoro dell’articolo precedente, ma stavolta al ritorno, mi sono fermato a vedere il Nuraghe Santu Antine, che avevo forse visto quando ero alle scuole medie e che quindi non ricordavo quasi per nulla.
Nel bel mezzo di una piana nota come Valle dei Nuraghi, spunta maestoso e fiero con la sua torre centrale che all’epoca della costruzione, nel XV secolo a.C., si stima raggiungesse i 25 metri di altezza. La sua planimetria è di un’eleganza formidabile:
Purtroppo l’ho dovuto fotografare alla luce dura dell’una e mezza, non certo l’ideale, e fotografare i nuraghe è ogni volta un’impresa. Diciamo che sono mille volte meglio di persona, e in foto non rendono tanto.
All’interno è meraviglioso, con due impressionanti corridoi in pietra che collegano le torri Est e Ovest:
Anche questi sono difficili da valorizzare in foto, per lo meno per le mie scarse capacità. Forse sarebbe stata opportuna una figura umana a dar meglio il senso delle proporzioni, ma ero da solo e anche se avessi avuto un cavalletto non sarei certo stato fotogenico. Devo essere anche io parente dei nuraghi, sotto questo aspetto.
Ho provato anche questa foto verticale, ma il risultato è simile. In uno dei cortili interni c’è questo bel pozzo, che fungeva da indispensabile riserva idrica nel caso di eventuali assedi.
Monumento che rappresenta uno dei massimi vertici del periodo nuragico, il nuraghe Santu Antine di Torralba è una meraviglia che non vi potete perdere.
Meraviglie assolute per eleganza stilistica e cromatica, che facevano parte della porta di Ishtar di Babilonia, ottava porta della città interna realizzata sotto Nabucodonosor II nel 575 a.C. . Oggi conservata al Pergamon museum di Berlino, da vedere assolutamente.
Secondo una delle interpretazioni più accreditate, questo termine, ad indicare una risata amara, è stato utilizzato per la prima volta da Omero nell’Odissea, in riferimento ad Ulisse che sogghigna dopo aver schivato una zampa di bue lanciatagli contro da Ctesippo. (….ma Ulisse, chinando agilemente la testa, pervenne a schivarlo. E nel cuore amaramente sorrise).
Qualche anno fa sono state individuate delle tossine, contenute nel comune finocchio d’acqua (oenanthe fistulosa), che sembrerebbero capaci di causare la contrazione dei muscoli del viso nel tipico ghigno descritto in tante maschere fenicie, come quella della mia foto qui sopra, scattata proprio ad un murale di San Sperate, dove peraltro è stata ritrovata.
Ho scoperto Vittorio Sella per caso, pochi mesi fa. Da ormai una quindicina di anni sono appassionato di fotografia. Possibile che non lo avessi mai sentito nemmeno nominare?
D’accordo, colpa mia. Non avrò chissà quale cultura fotografica, ma possibile che in Italia un autore di questo calibro non sia celebrato come merita?
Eppure… Ansel Adams lo considerava uno dei maestri della fotografia di paesaggio, affermando che “revealed [the mountains] in all their sheer majesty” e che “the purity of Sella’s interpretations move the spectator to a religious awe“.
Un senso di meraviglia di tipo religioso.
Se vi sembra poco.
Per non parlare poi di quale sia l’opinione dei maggiori esperti internazionali sull’opera di Vittorio Sella.
« Sella is still remembered as possibly the greatest ever mountain photographer. His name is synonymous with technical perfection and aesthetic refinement. »
Jim Curran, K2: The Story of the Savage Mountain
Non ci sarebbe voluto poi tanto a capire di trovarsi al cospetto di un gigante. Ma questa è la cultura nel nostro paese. Me ne farò una ragione, e con umiltà cercherò di apportare il mio modesto contributo, omaggiando Vittorio Sella su questo blog.
Le fotografie di Vittorio Sella
Che poi… per capire la grandezza di Vittorio Sella sarebbe bastato guardare le sue immagini. Eccone qui alcune che ho trovato sul web (mi piacerebbe un giorno o l’altro comprare il libro delle sue opere, chissà che meraviglie vederle stampate come si deve):
Siniolchu Sikkim, from the Zemu glacier, 1899. (Vittorio Sella, Alpine Club Collection)
Highest peak of the Rouies as seen from the Cardon Glacier, (1888)
From the Southern Ridge of Staircase Peak (1909) – Vittorio Sella, Fondazione Vittorio Sella
Fotografie in bianco e nero piene di fascino, realizzate in maniera tecnicamente perfetta. E non con moderne attrezzature dotate di automatismi quasi infallibili, ma con fotocamere di più di cento anni fa!
Le immagini di Vittorio Sella erano ottenute da lastre 30 x 40 caricate su pesanti e ingombranti apparecchiature, che dovevano essere trasportate in alta montagna in condizioni difficilmente immaginabili. Era l’epoca pionieristica dell’alpinismo, e la foto qui sotto rende l’idea di cosa stiamo parlando:
Uomini coriacei che con funi e abiti improbabili scalavano le vette in condizioni quasi impossibili. Che come se non bastasse, e come se la pura sopravvivenza non fosse già il massimo obiettivo auspicabile, si portavano dietro attrezzature fotografiche altrettanto primitive.
Eppure, nonostante tutto ciò, Vittorio Sella riuscì a scattare fotografie di una bellezza mozzafiato. Non si può che rimanere stupefatti.
Ed eccolo qui infine, il nostro eroe. Al centro della foto, con una piccozza in mano e circondato da altri quattro memorabili personaggi:
Ed infine qui, in una foto più posata e ufficiale:
Non so perchè, ma lo immagino più felice e a suo agio nella prima di queste ultime due foto. Tra le sue montagne predilette, la cui perfezione e austera bellezza ha immortalato per l’eternità.
La storia di Mary Anning è sorprendente. L’ho scoperta per la prima volta leggendo “Breve storia di quasi tutto” di Bill Bryson, un libro “eccezionalmente piacevole”, per riportare la recensione del The Times.
Un’infanzia travagliata
Nata nel 1799 a Lyme Regis, in Inghilterra, in una famiglia molto povera, insieme al fratellino Joseph fu l’unica ad arrivare all’età adulta. Gli altri nove fratelli e sorelle morirono tutti prima di arrivare ai cinque anni, molti di malattia e altri di disgrazia. Uno dei fratelli morì all’età di quattro anni quando la madre lo lasciò solo per alcuni minuti in una stanza con il pavimento ricoperto di trucioli, che prese accidentalmente fuoco a causa di una scintilla.
Erano tempi duri, e anche Mary Anning rischiò di fare una brutta fine. Quando aveva poco più di un anno, si trovava in braccio ad Elizabeth Haskings, una amica di famiglia, quando scoppiò un temporale. Elizabeth e altre due donne si ripararono sotto un albero, con la bimba sempre in braccio. Vennero colpite da un fulmine e morirono tutte. Tranne Mary Anning.
Imparò a malapena a leggere e a scrivere, ma fu istruita fin da piccola dal padre, falegname ed ebanista, a ricercare, estrarre dalle rocce e ripulire piccoli fossili, soprattutto ammoniti, di cui le scogliere del Dorset erano particolarmente ricche.
All’epoca non si capiva ancora bene cosa fossero, ma i turisti erano lieti di acquistare queste curiosità naturali come souvenir. Alcuni credevano anche che queste strane pietre, chiamate snake-stones per motivi facilmente immaginabili, avessero misteriose proprietà medicinali.
La prima incredibile scoperta
Quando Mary Anning aveva soltanto undici anni, il padre morì, secondo alcuni di tubercolosi secondo altri cadendo da una scogliera mentre cercava ammoniti. Quel che è certo è che lasciò la famiglia nella miseria. Per racimolare qualche soldo, Mary e il fratello continuarono a cercare fossili, e fu proprio Joseph nel 1811 a scoprire tra le rocce un cranio, lungo più di un metro, di uno strano animale. Nei mesi successivi Mary Anning riuscì pazientemente, e con una abilità fuori dal comune tenuto conto degli strumenti rudimentali di cui disponeva, a estrarre l’intero corpo dell’animale. Non sapendo bene come classificarlo, venne identificato come una strana specie di coccodrillo e venduto al collezionista di curiosità naturali William Bullock.
Fu finalmente Charles Konig, un naturalista del British Museum, a capire che non si trattava di un coccodrillo e a dare il nome allo strano rettile marino: Ichthyosaurus platyodon (ittiosauro, per gli amici).
E non finisce qui…
Nel 1820 scoprì il primo scheletro di plesiosauro, e riuscì a ricostruirlo in maniera talmente mirabile, come si può osservare al “Sedgwick Museum” di Cambridge dove è tuttora esposto, che l’esploratore tedesco Ludwig Deichart la soprannominò «la principessa della paleontologia».
Talmente sorprendente era questo ritrovamento di un animale mai visto prima, addirittura con 35 vertebre cervicali, che ci fu anche chi accusò Mary Anning di falsificare i reperti, come il naturalista francese Georges Cuvier, all’epoca considerato la massima autorità in materia. Poco tempo dopo Mary Anning scoprì un altro scheletro completo e Cuvier non poté far altro che rimangiarsi le proprie accuse, affermando anzi che si trattava della “creatura più sorprendente che sia stata mai scoperta”.
Nel 1828 scoprì il primo scheletro di pterosauro e la sua fama crebbe a tal punto da far scrivere a Lady Harriett Silvester nel 1824: “Meraviglioso esempio del favore divino, quella povera ragazza ignorante… grazie alle sue letture e alla sua diligenza, è arrivata a un grado di conoscenza tale da potersi intrattenere con professori ed altre persone competenti, e tutti riconoscono che ne capisce più di scienza di chiunque altro nel regno».
I riconoscimenti, finalmente
Nel 1830 Henry De la Beche dipinse un celebre acquerello, il Duria Antiquior, nel quale sono rappresentati gli animali scoperti da Mary Anning nel loro ambiente naturale:
Grazie alle sue scoperte si ebbe la conferma per la prima volta che la Terra era incredibilmente più antica di quanto allora si pensasse, e che c’era stata un’epoca nella quale i rettili dominavano la terra, il cielo e il mare. Questa bambina di umili origini diede un contributo fondamentale alla geologia e alla teoria dell’evoluzione, nonché al riconoscimento del ruolo delle donne anche il campo scientifico.
La vendita di questi fossili portò a Mary Anning un discreto benessere economico, sebbene tra alterne fortune, e continuò pertanto a cercarli per tutta la vita. Le scogliere erano però impervie ed estremamente pericolose, tanto più tenendo conto del fatto che il periodo dell’anno più propizio per la ricerca dei fossili era l’inverno, quando le intemperie provocavano piccole frane che esponevano le rocce sottostanti. Fu proprio durante una di queste frane che Mary Anning rischiò di perdere la vita. Riuscì a salvarsi, ma non così il suo amato cane Tray. Morì invece di cancro al seno a 47 anni.
Ed eccola qui la nostra Mary Anning, nel più celebre quadro che la ritrae. Con la picozza in mano, un ammonite, un teschio fossile e il fedele Tray ai suoi piedi:
E per finire, se volete divertirvi, provate a pronunciare velocemente il famoso scioglilingua inglese a lei ispirato:
She sells seashells on the seashore
The shells she sells are seashells, I’m sure
So if she sells seashells on the seashore
Then I’m sure she sells seashore shells
Amelia Earhart, l’isola Howland e l’isola Macquarie: un’altra delle coincidenze di cui mi piace parlare su questo blog. Qualche giorno fa guardavamo con grande spasso di mio figlio “Una notte al museo 2”, e tra i vari personaggi compariva proprio la famosa aviatrice, interpretata da Amy Adams. Non so per quale motivo, l’ho cercata allora su Wikipedia e ho scoperto che Amelia Earhart scomparve nel nulla nel 1937 durante l’avvicinamento finale all’isola Howland, nel tentativo di circumnavigazione del globo seguendo la rotta più lunga mai effettuata, pari a circa 47.000 km.
Ho quindi cercato nell’Atlante delle Isole Remote di Judith Schalansky l’Isola Howland, e ho scoperto che essa si trova, guarda un po’, proprio nella pagina precedente all’Isola Macquarie, della quale ho parlato qualche giorno fa in questo articolo. Come se poi non bastasse, il giorno successivo ho letto sul Post la traduzione di un articolo di Cleve R. Wootson Jr., uscito sul The Washington Post, nel quale si formulano nuove ipotesi sulla morte di Amelia Earhart. Insomma, ce n’era abbastanza per incuriosirmi e fare qualche ricerca sulla storia dell’aviatrice e sulle isole del Pacifico di cui si parlava.
La scomparsa di Amelia Earhart
Era l’epoca d’oro dell’aviazione, quella pionieristica nella quale c’erano ancora record da battere e trasvolate ancora mai tentate. Amelia Earhart era l’eroina nazionale americana. Prima donna ad avere attraversato l’Atlantico nel 1928. Prima donna ad effettuare la trasvolata in solitaria dell’Atlantico nel 1931. Prima donna ad attraversare gli Stati Uniti senza scalo nel 1932. Prima donna ad effettuare la trasvolata del Pacifico. Una leggenda vivente.
Alla mezzanotte del 2 luglio 1937, Amelia Earhart e il secondo navigatore Fred Noonan, fecero alzare in volo il Lockheed Electra L10, da lei appositamente modificato, dalla pista di Lae, in Nuova Guinea. La loro destinazione, dopo 4.113 km di volo sopra l’Oceano Pacifico, sarebbe dovuta essere un minuscolo e quasi invisibile fazzoletto di terra disperso nel mare infinito. Un atollo disabitato di pochi chilometri quadrati, chiamato Isola Howland.
L’Isola Howland
Con un fuso orario UTC-12 è l’ultimo posto al mondo in cui avviene il cambio della data. Volendo festeggiare il Capodanno in quest’isola, dovrete armarvi di pazienza e aspettare un giorno in più.
Ma non era questa peculiarità dell’isola che interessava Amelia Earhart. L’Isola Howland, e basta guardarla dal cielo per capirlo, sembra esser stata disegnata apposta per essere una perfetta pista di atterraggio in mezzo al nulla. Allungata, perfettamente piatta e priva di vegetazione.
Il problema è che è piccola, troppo piccola. Quasi invisibile. Basta una nuvola qualsiasi per nasconderla alla vista. Negli anni ’30 le tecniche di navigazione aerea erano ancora pionieristiche, e per tale motivo il cutter USCGC Itasca della United States Coast Guard avrebbe dovuto guidare il Lockheed Electra fino all’Isola Howland tramite navigazione radio.
Ma qualcosa andò storto, e alle 07.42 del 2 luglio Amelia Earhart trasmise via radio:
“Dovremmo essere sopra di voi, ma non riusciamo a vedervi — ma il carburante si sta esaurendo. Non siamo riusciti a raggiungervi via radio. Stiamo volando a 1.000 piedi “
L’Itasca inviò segnali in codice Morse, ma dall’aereo non riuscirono a determinarne la direzione. Alle 08:43 arrivò un nuovo messaggio dalla aviatrice:
“Siamo sulla linea 157 337. Ripeteremo questo messaggio. Ripeteremo questo messaggio a 6210 kHz. Attendete».
Poco tempo arrivò l’ultimo messaggio dal Lockheed Electra:
“Stiamo volando in linea nord e sud”
Dopodiché, le tracce di Amelia Earhart si persero per sempre. Per le ricerche il presidente Roosvelt schierò 9 navi e 66 aerei, per un costo di vari milioni di dollari dell’epoca. Ma senza successo.
Negli anni successivi sono state avanzate innumerevoli ipotesi sulla scomparsa di Amelia Earhart. La più accreditata è quella dell’incidente e affondamento. Una volta terminato il carburante, l’Electra sarebbe sarebbe stato costretto ad un ammaraggio di emergenza non lontano dall’Isola Howland, e i due piloti sarebbero quindi morti annegati. Tra il 2002 e il 2006 sono state compiute ricerche sottomarine del fondo oceanico, per un costo di svariati milioni di dollari, ma il relitto dell’aereo non è stato mai trovato.
L’ipotesi dell’atollo di Nikumaroro
Secondo la teoria dell’International Group for Historic Aircraft Recovery (TIGHAR) Amelia Earhart sarebbe ammarata nell’atollo di Nikumaroro, un’isola disabitata dell’Arcipelago delle Isole della Fenice, distante 643 km a sud dell’Isola Howland.
E tra parentesi… che nome fantastico! Arcipelago delle Isole della Fenice. Mi sarei appassionato a questa storia anche solo per aver scoperto questo nome!
A favore di questa ipotesi si riporta come prova principale il fatto che nel 1991 sarebbe stato ritrovato a Nikumaroro un pannello di alluminio proveniente dal Lockheed Electra della Earhart, nonché la triangolazione delle chiamate radio effettuate dal velivolo dopo l’ammaraggio.
Questa ipotesi ha parecchi elementi che lasciano perplessi, ma mi hanno portato a cercare l’atollo di Nikumaroro sul web, e a esplorarlo virtualmente su Google Earth: che meraviglia!
E con questa immagine finisce questa storia, che da una film di Hollywood mi ha condotto ad una affascinante avventura nella storia dell’aviazione e nelle meraviglie del Pacifico.