Riportando tutto a casa, e la pratica della chitarra

“Riportando tutto a casa”: così si potrebbe tradurre il capolavoro Bringing it all back home di Bob Dylan, uscito nel marzo del ’65. Il titolo del disco era una chiara dichiarazione di intenti, quella cioè di riportare in America un certo tipo di musica, che dopo gli splendori del rock&roll di Elvis Presley negli anni ’50, proseguiva la sua evoluzione in Inghilterra, dove era stata rivisitata e proposta in chiave più moderna.

Pur nell’evoluzione dello stile e degli arrangiamenti, le canzoni dell’epoca nascevano per lo più con finalità di intrattenimento e per spingere le persone a ballare. Le tematiche quasi sempre restavano leggere. Dylan  in quegli anni era etichettato, anche suo malgrado, il profeta assoluto del folk, genere musicale nel quale la parola ricopriva invece un ruolo determinante rispetto alla parte suonata. Con Bringing it all back home iniziò un vorticoso e rivoluzionario processo attraverso il quale riuscì ad amalgamare in maniera magistrale folk, blues e rock&roll con poesia e letteratura. Nel luglio del ’65, a pochissimi mesi di distanza, Dylan fece uscire un altro disco, Highway 61 revisited, il cui brano di apertura, Like a rolling stone, è considerato il momento fondante del rock.

Questa è la meravigliosa copertina del disco. La foto scattata da Daniel Kramer ritrae Dylan con Sally Grossman, la moglie del suo manager, e tutta una serie di oggetti simbolici troppo lunghi da elencare…

Ma perché tutto questo preambolo? Per parlare di un argomento che mi sta a cuore ma che non c’entra granché con tutto ciò. Cosa che giustifica ancora meno questa introduzione. Ma tant’è. Pur rendendomi conto della imperdonabile presunzione di voler fare anche solo un accostamento del genere, sento infatti forte la necessità di “riportare tutto a casa”. Che nella mia mente bacata non è altro che un modo più cerebrale di dire: “facciamo il punto della situazione”.

Nella mia vita ho sempre avuto un sacco di cose alle quali mi sono appassionato. Alcune hanno avuto durata effimera, altre sono rimaste costantemente in cima ai miei pensieri, altre ancora hanno avuto momenti di luna di miele, periodi di oblio e successivi improvvisi ritorni di fiamma. Come era ovvio, ad un certo punto – meglio tardi che mai, ma nel mio caso è un problema ricorrente – mi sono reso conto che non sarebbe stato possibile portare avanti tutti quanti questi interessi. Una scrematura era necessaria.

O meglio, avrei potuto anche continuare così come ho sempre fatto, a saltellare da una cosa all’altra. Ma con la cosiddetta maturità ho anche capito che il tempo a disposizione non sarebbe stato infinito, con tutte le limitazioni che ne sarebbero seguite. Alcuni interessi, infatti, per essere sviluppati nel modo in cui intendevo io avrebbero avuto bisogno di tempo – parecchio tempo! – e dedizione non momentanea.

Il giorno in  cui ho deciso di imparare a suonare la chitarra

L’esempio più eclatante nel mio caso, quello che mi ha letteralmente fatto aprire gli occhi, è stato quello della chitarra. Ne ripercorro brevemente la storia, per me molto significativa. Ho ricevuto, sua mia richiesta, una chitarra in regalo da uno zio per i miei 18 anni. Dopo aver preso tre o quattro lezioni da un amico di famiglia, dopo qualche settimana ho rinunciato. E per quasi vent’anni la chitarra è rimasta a prendere polvere.

Fino al 28 ottobre 2009.

Quel giorno, mentre guardavo una puntata di X Factor con mia moglie ho avuto una improvvisa folgorazione. Francesco De Gregori e Morgan hanno eseguito “Il suonatore Jones”, dal capolavoro “Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André.

Libertà l’ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.

E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.

La combinazione di testo e musica, profondamente evocativi, unitamente al suono della chitarra e dell’armonica a bocca, mi hanno completamente stregato. In quel preciso momento, e lo ricordo come fosse ieri, ho deciso che avrei dovuto imparare a suonare uno strumento musicale. Chitarra o armonica a bocca. Avendo già la chitarra, la scelta è stata semplice. Ho acquistato il manuale “Chitarra per negati” e scaricato un corso dal web, con delle videolezioni di buon livello.

Una illustrazione di “Fiddler Jones” (Il suonatore Jones) tratta da una edizione del poema “The Spoon Rive Anthology” di Edgar Lee Masters, a cui si è ispirato De Andrè.

Che cosa ho imparato dalla (mancata) pratica della chitarra

Ho iniziato a strimpellare, con molta difficoltà. La diteggiatura mi sembrava impossibile. Premere le corde una tortura. Certi movimenti, anche banali, difficilissimi. Riuscivo a farli ma a costo di una estrema lentezza e concentrazione. I suoni che ne venivano fuori, manco a dirlo, erano orrendi. Alcune posizioni delle dita, che vedevo nelle pagine successive ai primissimi capitoli, mi sembravano addirittura impensabili e irrealizzabili. La mia mano ormai non aveva più la mobilità per fare certe cose. Troppo tardi. Ho anche pensato di avere le dita corte per la chitarra. I polpastrelli troppo grossi, poco affusolati e non adatti.

Comunque sia, pur con grandi difficoltà, mi sono posto l’obiettivo di esercitarmi tutti i giorni per una ventina di minuti. Alcuni rari giorni ci sono riuscito, molti altri li ho saltati. Ho avuto dei lunghi periodi nei quali non ho toccato la chitarra. Per mesi. In un attimo sono passati cinque anni.

Cinque anni nei quali, nella mia testa, ero convinto di fare chitarra. Se qualcuno mi avesse chiesto: “Stai suonando la chitarra?”, avrei risposto: “E’ da cinque anni che mi esercito, ma i progressi sono scarsi. Evidentemente non sono portato.

La mia Epiphone Les Paul II Ultra
La mia Epiphone Les Paul II Ultra, regalo di mia moglie nel Natale 2010.
© germinazioni

E adesso viene il bello

Peccato solo che un giorno mi sono messo a fare un po’ di conti. E sono stati conti impietosi. In cinque anni, sommando tutte le volte in cui mi ero messo a suonare, non avevo superato le ottanta ore di esercizio.  Soltanto ottanta ore! Una ridicola media di 16 ore all’anno. Poco più di un’ora al mese!

A questo punto era tutto chiaro.

Non solo sarebbe stato impossibile pretendere di imparare a suonare la chitarra dedicandoci un’ora al mese. Ma ancora peggio è stato scoprire di avere una convinzione distorta, legata ad una percezione del passare del tempo completamente sbagliata. Non so perché ciò avvenga, ma non è un caso isolato. Quante volte ci ripromettiamo di fare una determinata cosa, e ci diciamo “Domani inizio”, salvo poi accorgerci che sono passati anni – anni! – e non abbiamo ancora combinato nulla?

Con questa consapevolezza alle spalle, ho deciso allora di riprendere a suonare la chitarra con più dedizione. Già che c’ero, mi sono posto un obiettivo ambizioso e a lungo termine.

Cinquemila ore di pratica.

Perché proprio questo numero? Perché è la metà esatta di 10.000, ovvero il numero di ore che una certa teoria considera necessarie per raggiungere un discreto grado di maestria in qualcosa. A patto che si tratti di ore nelle quali si eserciti la cosiddetta deliberate practice, concetto tutt’altro che trascurabile ma che non ho voglia di approfondire in questa sede. Anni fa ho letto il libro di Malcolm Gladwell che ne parlava, e che sia vera o meno questa teoria, poi smentita da altri studi, di una cosa ero sicuro. Dopo 5.000 ore di chitarra, qualche progresso lo farò. Almeno si spera. Non saranno diecimila ore, e non mi consentiranno di arrivare a chissà quale maestria, ma dovrebbero essere più che sufficienti per strimpellare qualcosa in maniera dignitosa.

Cinquemila ore però non sono poche, e ho calcolato che anche nella più ottimistica delle ipotesi avrei potuto dedicare alla chitarra una quarantina di minuti al giorno. Ho iniziato domenica 10 gennaio 2016, con la previsione di terminare (salute e altre cose permettendo ovviamente) per lunedì 24 marzo 2036. Vent’anni di chitarra. A quaranta minuti al giorno. Non male.

Ho utilizzato l’app Persistence, nell’iPhone, per tenere traccia di questa attività. Fino al 15 febbraio sono riuscito a non saltare neppure un giorno. Ancora non riesco a capire come ho fatto, ma ero proprio concentrato anima e corpo su questo obiettivo. Tornavo a casa da lavoro e anche se ero stanco, mi mettevo dieci minuti a fare chitarra. Poi un altro quarto d’ora durante una pausa nei giochi con mio figlio o nelle incombenze quotidiane. Poi altri quindici minuti ritagliati chissà come. Per quasi un mese ho saltato diversi giorni, ma non volevo desistere. Dal 10 marzo fino al 30 luglio ho avuto un buon periodo di continuità, nel quale sono riuscito a saltare pochissimi giorni. Poi black-out estivo quasi completo, a causa del quale sono arrivato a -90 giorni sulla tabella di marcia.

Ma non desisto, e cercherò di riprendere quanto prima.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.