Buddismo e comando

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Come si concilia la Legge della Liberazione, la cui essenza è la pace interiore, con la legge dei re, la cui essenza è l’esercizio dell’autorità?

Se vi è compiacimento nella pace interiore il regno è malfermo; se vi è inclinazione per il regno, è la rovina della pace interiore: come la fredda acqua e il caldo fuoco non possono unirsi, così pace interiore e violenza non sono compatibili.

Asvaghosa – “Le gesta del Buddha”, Canto IX

Anatomia dell’irrequietezza

L’ho riletto forse per la terza o quarta volta. Stavolta in formato ebook su Kindle, ma il confronto con il piacere fisico della lettura che deriva da ogni libro della Biblioteca Adelphi è stato impietoso. Erano forse quindici anni che non lo rileggevo, e per fortuna l’ho continuato a trovare un libro scritto con uno stile piacevole, elegante, seppure il testo come è ovvio per la sua stessa genesi resti una raccolta frammentaria e variegata, con alcune parti noiose ma leggibili e altre ormai famose, come la lettera al suo editore Tom Maschler, dove è contenuta una delle frasi più iconiche di Chatwin:

Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?

Oppure questa, che mi affascina di più:

L’uomo, umanizzandosi, aveva acquisito insieme alle gambe diritte e al passo aitante un istinto migratorio, l’impulso a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni […] ciò spiegherebbe perché […] nell’intento di ristabilire l’armonia dello stato primigenio, tutti i grandi maestri – Buddha, Lao-tse, san Francesco – abbiano messo al centro del loro messaggio il pellegrinaggio perpetuo, e raccomandato ai loro discepoli, letteralmente, di seguire la Via.

Altre ancora evocative di tempi passati nei quali si facevano le cose con più semplicità e ci si metteva meno problemi a programmare e “organizzarsi”, come questo:

Nel 1949 i tempi duri erano finiti, e una sera mio padre tornò a casa dal lavoro pilotando orgogliosamente un’automobile nuova. L’indomani portò me e mio fratello a fare un giro. Sul ciglio di una scarpata si fermò, additò una fila di monti grigi a ovest e disse: «Andiamo nel Galles». La notte dormimmo in auto, nel Radnorshire, al suono di un torrente montano. Allo spuntar del sole ci trovammo immersi nella rugiada e circondati dalle pecore.

Canto VI de “Le gesta del Buddha” di Asvaghosa

46. “Come gli uccelli, dopo essersi incontrati sull’albero che li ospita, si separano, così l’incontro delle creature finisce sempre con la separazione.

47. “E come le nubi si addensano e di nuovo si allontanano, così, credo, è l’unione e la separazione degli esseri viventi.”

48. “E dal momento che l’umanità è soggetta a continue separazioni, il pensiero del possesso affettivo non è giusto, l’incontro dei mortali essendo simile a sogno.”

Asvaghosa – Le gesta del Buddha

Siddharta e la foglia

“Sorrise e levò lo sguardo a una foglia di pippala stagliata contro il cielo azzurro, la cui punta ondeggiava verso di lui come se lo chiamasse.

Osservandola in profondità, Gautama vi distinse chiaramente la presenza del sole e delle stelle, perché senza sole e senza stelle quella foglia non sarebbe mai esistita. E vide la terra, il tempo, lo spazio: tutti presenti nella foglia. In verità, in quel momento preciso, l’universo intero si manifestava nella foglia. La realtà della foglia era un miracolo stupefacente.

Vide che è l’esistenza di tutte le cose a rendere possibile l’esistenza di ciascuna cosa.

L’uno contiene il tutto e il tutto è contenuto nell’uno. La foglia e il suo corpo erano una cosa sola. Nessuno dei due possedeva un sé permanente e separato, nessuno dei due poteva esistere indipendentemente dal resto dell’universo.

Vedendo la natura interdipendente di tutte le cose, Siddhartha ne vide perciò la natura vuota: tutte le cose sono vuote di un sé separato e isolato. Comprese che la chiave della liberazione sta nei due principi dell’interdipendenza e del non sé.

Illuminando i fiumi delle percezioni, Siddhartha comprese che l’impermanenza e l’assenza di un sé sono le condizioni indispensabili alla vita. Senza impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla potrebbe crescere ed evolversi. Se un chicco di riso non avesse la natura dell’impermanenza e del non sé, non potrebbe trasformarsi in una piantina. Se le nuvole non fossero prive di un sé e impermanenti, non potrebbero trasformarsi in pioggia. Senza natura impermanente e priva di un sé, un bambino non potrebbe diventare un adulto.

Quindi accettare la vita significa accettare l’impermanenza e l’assenza di un sé.

La causa della sofferenza è la falsa nozione della permanenza e di un sé separato.

Vedendo ciò, Siddhartha giunse alla comprensione che non c’è né nascita né morte, né creazione né distruzione, né uno né molti, né dentro né fuori, né grande né piccolo, né puro né impuro. Sono tutte false distinzioni create dall’intelletto. Penetrando nella natura vuota delle cose, le barriere mentali vengono scavalcate e ci si libera dal ciclo della sofferenza

Asvaghosa – Buddhacarita, iii, 22